Italia Lavoro, di cui Paolo Reboani è presidente e a.d., promuove azioni nel campo dell’impiego: verrà ripensata con la nascita dell’Agenzia nazionale per l’occupazione.

Un mercato del lavoro più flessibile in entrata e in uscita. L’ampliamento del raggio d’azione di politiche attive fondate su un raccordo più stretto tra orientamento, formazione e mondo occupazionale. Il tutto in un quadro economico caratterizzato da una ripresa della produttività, grazie anche alla riscoperta e alla valorizzazione di quei mestieri manuali che hanno fatto la fortuna del made in Italy.

Sono queste le ricette che, a giudizio di Paolo Reboani, presidente e amministratore delegato di Italia Lavoro, potrebbero permettere al Paese di combattere la piaga della disoccupazione. Reboani, classe 1965, è stato consigliere economico e capo della segreteria tecnica di due ministri del Lavoro, Roberto Maroni dal 2001 al 2006, e Maurizio Sacconi da 2008 al 2010; per assumere poi la guida dell’ente del dicastero che si occupa della promozione e la gestione di azioni nel campo delle politiche del lavoro e dell’inclusione sociale (del cui futuro si sta tra l’altro discutendo proprio in queste settimane, alla luce dell’annunciato varo dell’Agenzia nazionale per l’occupazione).

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HANNO FORTE RISCONTRO

LE INIZIATIVE FINALIZZATE

ALLA RISCOPERTA

DEI MESTIERI LEGATI ALLA

TRADIZIONE ARTIGIANALE

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L’artigianato può davvero rappresentare una delle armi per rilanciare l’occupazione nel nostro Paese?
A leggere i risultati di “Botteghe di Mestiere”, il progetto finanziato dal ministero del Lavoro e realizzato da Italia Lavoro, parrebbe proprio di sì, soprattutto per la fascia più giovane della popolazione: un giovane su cinque è stato assunto alla fine dei 3.226 tirocini, ovvero il 20% del totale. Nel complesso sono state 139 le botteghe aperte in tutta Italia su iniziativa di un migliaio di aziende operative in svariati settori economici, dalla ristorazione all’enogastronomia, dalla moda al benessere, dalle riparazioni meccaniche alla lavorazione del legno, dalle costruzioni alla lavorazione dei metalli. Disoccupati tra i 18 e i 28 anni hanno avuto la possibilità per sei mesi di lavorare nella manifattura di qualità: hanno ricevuto una borsa mensile di 500 euro e hanno così acquisito conoscenze e competenze per trovare un’occupazione o per dare il via a una propria attività artigianale.

La disoccupazione ha raggiunto in Italia livelli drammatici. Quali soluzioni dovrebbe mettere in campo la politica, secondo lei, per arginare il fenomeno?
Il rapporto presentato lo scorso febbraio dall’Ocse conferma come le riforme del mercato del lavoro siano una priorità per l’Italia che vuole crescere. È significativo di conseguenza che l’organizzazione di Parigi sottolinei la necessità di una piena attuazione del Jobs Act, centrata su un mercato meno rigido e su politiche attive più estese e capaci di inserire più persone nel mercato del lavoro. È la riforma iniziata con la legge Biagi che il Jobs Act ora sta completando. Di pari passo auspicherei un indirizzo economico che si basi su una nuova stagione di politica industriale, capace di creare nuovi posti di lavoro, valore e ricchezza – anche legando il salario alla produttività – necessari per una nuova politica della distribuzione che affronti il tema dell’ineguaglianza e delle iniquità, secondo il sempre valido slogan “dei meriti e dei bisogni”.

 

Nel nostro Paese le risorse destinate dal settore pubblico alle politiche del lavoro sono state sempre ingenti. La maggior parte dei fondi è stata utilizzata sino a oggi però per trattamenti di disoccupazione, per politiche dunque passive. Come si può invertire la rotta, quale deve essere il ruolo della formazione nel processo di riqualificazione del lavoro?
Nei prossimi anni ci dobbiamo affidare a un set di strumenti che disegnino politiche del lavoro maggiormente ritagliate sulle necessità delle aziende e sui profili delle persone che lavorano. Per questo auspico che immediatamente dopo l’approvazione dei decreti legislativi che dovranno facilitare l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, si ponga mano al cantiere altrettanto complesso delle politiche attive anche alla luce dei cambiamenti costituzionali in corso.

I progetti di formazione finanziati con fondi strutturali europei hanno prodotto sino a oggi risultati poco confortanti, a differenza di quanto avviene ad esempio in Francia e Germania. Come mai? Come si può invertire la rotta?
È tempo di cambiare verso anche a questo lato delle politiche del lavoro. Dopo anni di interventi sulla regolamentazione è giunta l’ora di passare finalmente alle politiche attive, abbandonando vecchi schemi interpretativi e cercando nuove strade per creare maggiore occupazione. I dati Excelsior di Unioncamere e del ministero del Lavoro non fanno che evidenziare periodicamente che di fronte alla forte richiesta di determinate figure professionali, la risposta è pressoché nulla, perché i profili richiesti non vengono formati o perché si è poco disposti alla mobilità nel mercato del lavoro. Vi è quindi l’obbligo di intervenire in questa situazione creando una passerella più agevole tra istruzione e mondo del lavoro, e di responsabilizzare i giovani a cercare lavoro in più direzioni.

Dal suo osservatorio privilegiato, come ha visto cambiare in questi anni di crisi e disoccupazione in aumento l’approccio al mercato del lavoro delle nuove generazioni?
Un approccio nuovo è certamente riscontrabile nei giovani che si avvicinano al lavoro. Proprio dalle attività svolte negli ultimi anni con Italia Lavoro nell’ambito delle politiche attive, sono emerse nuove attenzioni verso mestieri e settori produttivi più in linea con i fabbisogni di mercato. In particolare si segnala sia un forte riscontro verso tutte quelle iniziative mirate alla riscoperta dei mestieri legati alla manualità e alla tradizione artigianale, sia un interesse nuovo da parte dei giovani verso nuovi modelli di produzione e di business connessi all’innovazione tecnologica, come dimostra il fenomeno dei cosiddetti makers.