
Claudio Pasini
Il presidente del Consiglio Romano Prodi ha recentemente puntato il dito sulle retribuzioni dei “dirigenti d’azienda”. Perché secondo lei ha identificato questo tema come centrale per “riflettere e prendere decisioni”?
Sono rimasto sorpreso quando ho letto nella lettera di Prodi questa affermazione, soprattutto perché identifica tout court la categoria dei dirigenti d’impresa con i super-top manager. Un’intera categoria di 186 mila dirigenti di aziende private, con una retribuzione lorda media di circa 100 mila euro, viene equiparata, in modo assolutamente improprio, ai top 100, che sono in gran parte i grandi capitalisti del Paese. Io posso capire l’obiettivo di Prodi relativamente ai guadagni immotivati o esageratamente alti di certe figure manageriali, di certi imprenditori, di certi finanzieri d’assalto, ma quella dichiarazione, riferendosi ai “dirigenti d’impresa” senza alcuna specificazione, è stata per noi assolutamente impropria ed errata.
Ma Prodi è un economista. Come fa a compiere un errore del genere?
O gli è sfuggito o ha altri obiettivi. Spero che gli sia sfuggito. Altrimenti l’unico obiettivo che può avere, la continuazione di quello che è avvenuto con la Finanziaria, mi preoccupa molto. Cioè considerare l’area del lavoro dipendente d’importo medio-alto come quella che può dare ancora di più al fisco. Io ho dovuto rispondere precisando alcune cose, in particolare chi sono oggi i dirigenti d’impresa. Non sono queste poche centinaia di ricchi o con retribuzioni esagerate. Dell’elenco a cui faceva riferimento Prodi, il 30% sono banchieri e assicuratori, il 20% imprenditori, un altro 20% grandi dirigenti di gruppi multinazionali o di imprese ex pubbliche, parapubbliche, privatizzate. Quindi non solo non c’entriamo nulla ma se questa è la conoscenza del dirigente d’impresa privata del nostro Paese è una conoscenza sbagliata.
Chi è allora il dirigente, ce lo dica lei.
Per il 98% è uno specialista, con competenze molto spinte su funzioni aziendali precise: marketing, commerciale, produzione, pubblicità, risorse umane ecc. Ha la responsabilità di gestire questa funzione e di raggiungere gli obiettivi fissati dall’azienda. Per l’altro 2%, massimo un 3%, è la figura di vertice (amministratore delegato o direttore generale) che ha la responsabilità di definire le strategie complessive dell’azienda.
Nella sua risposta a Prodi lei dice che il presidente del Consiglio dovrebbe guardare in altre direzioni. Quali sono e perché?
Risposta fin troppo facile. In questo Paese se c’è un’area di privilegio non è certo quella dei dirigenti d’azienda, ma la politica, con il suo costo esorbitante. Gli esempi sono tantissimi, basta leggere il recente libro di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella, La casta. Facciamone solo uno, il trattamento pensionistico dei politici eletti: è un autentico scandalo, mentre tutto il resto del Paese deve stringere la cinghia e ci stiamo avvicinando a un ulteriore peggioramento del sistema pensionistico per tutti i cittadini. Ma lor signori si guardano bene dal dare l’esempio, continuando imperterriti a godere di privilegi inammissibili. Le pensioni erogate nel 2006 dalla Camera dei deputati sono state pari a 129 milioni di euro, a fronte di entrate per 9 milioni. Al Senato 60 milioni di prestazioni e 4 di entrate! Non c’è bisogno di commenti. Prodi fa bene a mettere le mani laddove ci sono problemi, quindi tanto più dovrebbe impegnarsi prioritariamente ad abbattere il costo della politica: mezzo milione di persone vivono di questo sistema, solo parlando degli eletti, senza considerare quelli che ne vivono in maniera indiretta.
Spesso avviene che, a causa del costo, nelle ristrutturazioni aziendali il manager venga tagliato. In queste situazioni cosa fate come associazione e cosa dovrebbe fare lo Stato per aiutare la ricollocazione del dirigente?
Il nostro è un ruolo ingrato: garantire efficienza e produttività all’impresa e per conseguire questi obiettivi talvolta dobbiamo anche ridurre i posti di lavoro. Non apprezzo i curriculum dei dirigenti che si vantano di aver tagliato centinaia e centinaia di teste, ma sappiamo che fa parte del nostro lavoro. Però questa situazione riguarda anche noi. Sempre più spesso avviene che arrivato a una certa età, generalmente intorno ai 50 anni, il dirigente perda il lavoro perché l’azienda lo considera più un costo che una risorsa (sbagliando, perché l’esperienza è una grande risorsa); difficilmente riesce a rientrare nel sistema con un contratto da dirigente. Noi stiamo impostando nell’ambito del rapporto bilaterale con la controparte, cioè Confcommercio e Confetra, una serie di soluzioni che permettano il reingresso del dirigente in azienda. Ma servono soprattutto specifici ammortizzatori sociali, di cui la nostra categoria è priva. Noi ad esempio versiamo obbligatoriamente lo 0,3% delle retribuzioni a un fondo di mobilità Inps di cui non possiamo usufruire. La solidarietà non può andare solo in una direzione.
Proposte assistenzialiste…
Non chiediamo assistenzialismo, ma di essere aiutati un po’ meglio nella fase di transizione da lavoro a lavoro e magari anche incentivati all’autoimprenditorialità: un dirigente con vent’anni di esperienza alle spalle ha caratteristiche di idoneità per avviare un’attività in proprio, magari d’intesa con l’azienda che l’ha obbligato ad andarsene. Se la perdita del lavoro avviene intorno ai 53-54 anni e contemporaneamente viene spostata in avanti l’età del pensionamento, c’è un lungo periodo nel quale il manager è costretto ad accettare quello che gli offre il mercato, generalmente consulenze o rapporti occasionali. Obbligato per di più a versare alla gestione separata Inps, senza potere, anche volendo, continuare a versare nella gestione ordinaria. Come riesce ad arrivare all’età della pensione di vecchiaia, cioè a 65 anni? Sarebbe grave se oltre al problema sociale che abbiamo nel Paese di precarietà in entrata si creasse, anzi si aggravasse quello della precarietà in uscita, tipico della nostra categoria. Una soluzione sarebbe quella del tutoraggio del dirigente giovane da parte di quello più maturo.
Dal vostro punto di vista quali sono le problematiche chiave del sistema impresa? Come vedete ad esempio i licenziamenti, i tempi di incasso, i crediti?
Noi siamo pienamente identificati con l’impresa. Il nostro ruolo è di gestori di funzioni aziendali o di aziende nel loro insieme, quindi di fatto viviamo quotidianamente i problemi dell’azienda dal lato di chi ha responsabilità di decisione e di gestione. Tutti i problemi da lei citati li viviamo quotidianamente a fianco dell’imprenditore, con l’obbligo da parte nostra di dare risposte compatibili con gli equilibri dell’azienda e con i suoi obiettivi.
Per quanto riguarda i licenziamenti le imprese devono poter competere al meglio, utilizzando ragionevolmente le risorse umane e le loro competenze. Quindi, all’interno di un sistema di diritti e di doveri, l’impresa deve poter licenziare, se realmente non ha bisogno di quelle competenze. Arroccarsi sull’impossibilità di licenziare porta spesso a forme estreme di mobbing che tolgono dignità e anni di vita alle persone e, se il problema del l’impresa è reale, tolgono competitività a quell’impresa e a tutto il sistema. Poi però ci vogliono delle contropartite a fronte del licenziamento, e non solo in termini economici. Ci vogliono ammortizzatori veri e per tutti, che sostengano economicamente e che permettano con formazione e altri servizi (collocamento vero e funzionante, incontro domande e offerta) di riconvertire quelle competenze e/o di spostarle dove c’è bisogno. Poi ci sono gli atavici problemi della burocrazia che frenano l’attività aziendale, prolungano inutilmente decisioni e implementazione di idee e attività. Noi manager lo sappiamo bene. Qui serve un drastico cambiamento. Sburocratizzare dando alla P.A. l’obiettivo di abbattere i tempi e le incombenze e supportare realmente chi si rivolge a lei. Se questo non avviene vanno prese, come nel privato spesso accade, decisioni anche drastiche.
Ha ancora senso il contratto nazionale collettivo di lavoro dei dirigenti, mentre all’estero si preferiscono contratti di tipo consulenziale a trattativa prevalentemente individuale?
Noi crediamo che il contratto collettivo abbia ancora molto significato. Il nostro senso di responsabilità è tale che non intendiamo creare lacci e lacciuoli all’azienda nel rapporto di lavoro col dirigente, siamo attenti anche alle richieste degli imprenditori di alleggerire certi istituti contrattuali retaggio del passato non più attuali. Nel nostro contratto, ormai da due rinnovi, non esistono più gli scatti di anzianità, perché noi crediamo nella meritocrazia. Ma passare a un rapporto esclusivamente individuale tra dirigente e azienda - come molte imprese comunque vorrebbero - significherebbe lasciare il primo in balia della seconda. È una strada pericolosa, che sbagliando, a nostro avviso, hanno intrapreso i dirigenti dell’industria, ma garantisco che la gran parte dei colleghi industriali in servizio è totalmente insoddisfatta.
L’Italia è piena di piccole imprese a carattere familiare. Quali problemi incontrano i manager in queste aziende?
Non esistono, non ci sono manager in queste aziende. Nel nostro Paese i dirigenti sono presenti praticamente solo al Nord (al Sud su 186 mila ce ne sono solo 5.800, di cui solo 500 nel terziario) e nelle imprese di medie e grandi dimensioni. Peccato che la gran parte del nostro sistema produttivo sia caratterizzata da imprese piccole e piccolissime. Chi apporta cultura manageriale in questo tipo di imprese? In teoria dovrebbe essere l’imprenditore, che oltre ai capitali dovrebbe immettere anche capacità gestionali. Vanno formati anche gli imprenditori. Ma sembra che nessuno si accorga di questa esigenza. È possibile introdurre figure manageriali nella piccola impresa e nel Mezzogiorno, ad esempio con incentivi fiscali e abbattimenti contributivi, come ha proposto recentemente l’on. Giorgio Benvenuto. Poi c’è il problema del ricambio generazionale. Non sempre l’imprenditore di seconda o terza generazione ha i figli idonei o interessati a continuare l’attività; in tali casi l’impresa viene venduta o finisce, e si perdono esperienze straordinarie di imprenditorialità. Perché non pensare a manager che possano subentrare in tutto o in parte nel capitale della società? Ma fino a oggi non ci sono gli strumenti idonei.
Visco, Damiano, Bersani. Con quale di questi tre ministri è più facile per voi parlare?
Sulle liberalizzazioni di Bersani siamo stati assolutamente d’accordo. L’economia dei servizi può svilupparsi se si va verso una maggiore liberalizzazione, che sola può generare un circolo virtuoso dell’economia. Ma ci vuole maggiore coerenza tra sistema centrale e sistemi locali: troppo spesso abbiamo visto regioni ed enti locali approvare leggine che di fatto hanno bloccato o rallentato i processi di liberalizzazione. Poi si devono toccare i settori veri, come le public utilities, caratterizzate da monopoli locali di natura politica. Bersani deve fare un’altra tornata su questo settore. Per quanto riguarda Damiano, su temi che a noi interessano alcune risposte del ministro del Welfare sono positive. Ad esempio quando dice che la riforma degli ammortizzatori sociali riguarderà tutti, senza esclusioni, immagino che valga anche per noi. Poi quando parla di retribuzione variabile e di detassazione e decontribuzione maggiore su questa parte, siamo completamente d’accordo. Lo stesso quando si dice disposto a eliminare il divieto di cumulo tra pensioni e reddito da lavoro.
Quindi Bersani e Damiano sono gli sceriffi buoni. Poi c’è lo sceriffo cattivo, Visco...
Visco fa il suo lavoro, deve evidentemente aumentare le entrate in una situazione di finanza pubblica difficile. Dove mi preoccupa la sua politica? Quando spreme i soliti noti, i redditi da lavoro dipendente, in particolare quelli medio-alti. È mai possibile che in questo Paese il 70% delle entrate fiscali derivi da lavoro dipendente? Mi risulta che ci sia un rapporto 50/50 tra dipendenti e autonomi. È mai possibile che su 380 mila persone che dichiarano un reddito superiore a 90 mila euro il 37% siano dirigenti di impresa privata? È mai possibile che noi rappresentiamo lo 0,5% di tutti i contribuenti ma il 6% del gettito Irpef? C’è una parte enorme dell’economia sconosciuta al fisco. È qui che Visco deve concentrare la sua attenzione. Non chiediamo privilegi, ma di non essere tartassati più del dovuto.
Da che parte si collocano politicamente i vostri associati?
Non abbiamo indagini dirette, ma al congresso di tre anni abbiamo fatto una determinata domanda che ci ha consentito di poter dire che per il 55% i nostri dirigenti stavano col centro-destra e per il 45% col centro-sinistra. Oggi, dopo l’ultima finanziaria, la quota del centro-destra è sicuramente aumentata.
Cosa si può fare per aumentare la professionalità dei manager?
Con la formazione continua, sulla quale noi siamo degli antesignani appunto con il Cfmt (oltre 3.000 dirigenti all’anno per oltre 6.000 giornate). È un dovere per il dirigente, è sciocco pensare di essere arrivati. C’è una mobilità enorme e quindi è necessario aggiornarsi continuamente sulle tecniche gestionali. Corsi brevi, intensivi, ripetuti. Ma contemporaneamente questo è anche un diritto. Però, come ho già detto, anche gli imprenditori dovrebbero fare uno sforzo per aggiornarsi professionalmente: troppi di loro pensano di essere “nati imparati”.
È da anni in atto un forte cambiamento strutturale dell’economia italiana: meno industria (anche per le delocalizzazioni) e più terziario, con conseguenze sull’occupazione complessiva. Come giudica questa situazione?
L’occupazione è diminuita nell’industria in seguito all’inevitabile processo di deindustrializzazione, peraltro non ancora concluso. La crescita del terziario è stata e continua a essere tale da riequilibrare in termini di posti di lavoro quello che si è perso nell’industria. Nel complesso l’occupazione è in aumento, anche se con forte ricorso a contratti precari. La sfida che la politica ha davanti a sé è trasformare progressivamente questi rapporti di lavoro verso forme più stabili. Se la precarietà si prolunga troppo nel tempo crea ansietà sociale oltre che individuale. Ma attenzione, il primo responsabile di questa precarietà diffusa è la Pubblica Amministrazione, che fa ricorso a man bassa di contratti di questo tipo. È necessario trovare adeguati incentivi per stabilizzare l’occupazione.
A proposito di P.A., si dice che il settore pubblico deve diventare più competitivo e i manager di questo settore dovrebbero essere identificati più per la professionalità che per lo schieramento politico. Secondo lei concretamente cosa si deve fare perché ciò accada?
Credo che occorrano più competenze manageriali nella P.A.
Come si può fare?
Occorre una separazione chiara dei ruoli tra il livello politico - quello dell’amministratore pubblico - e il manager. Questa divisione oggi non c’è. Poi bisogna ricreare le regole, che sono saltatecompletamente. Infine sarebbe molto importante se aumentassero i flussi in entrata e in uscita, l’interscambio tra dirigenti pubblici e privati.
Nel pubblico ci sono tanti dirigenti validi e in grado di dare importanti contributi sia all’interno della P.A. sia nel privato. Poi serve formazione continua per tutti quelli che ci sono. Soprattutto servirebbe favorire l’ingresso di manager provenienti dal settore privato con cultura e mentalità improntata a mettere il cliente al centro per fornire servizi, ma ancor più soluzioni, efficienti ed efficaci ai cittadini. E poi, i dirigenti che non portano risultati vanno licenziati, ma licenziati perché realmente non performanti, non perché invisi a qualche schieramento. Abbiamo bisogno che la nostra P.A. diventi un facilitatore nella vita di tutti i giorni dei suoi cittadini e supporti la competitività del Paese e della sua economia.
Quali sono le battaglie della vostra associazione in tema di welfare: fisco, assistenza, previdenza?
In estrema sintesi chiediamo minore pressione fiscale per chi paga le tasse; maggiori certezze dal sistema previdenziale, ammettendo tra l’altro la possibilità di prosecuzione volontaria dei versamenti contributivi ai fini del raggiungimento del diritto alla pensione per chi contribuisce alla gestione separata Inps; ammortizzatori sociali per risolvere il problema della precarietà dei manager over 50 e misure atte a favorire l’utilizzo delle competenze manageriali da parte di tante aziende che non lo fanno e che così non possono competere efficacemente; minori oneri sulle retribuzioni, in particolare sulla parte variabile e legata ai risultati.
Insomma, sono richieste che vanno a beneficio non solo dei manager ma anche di tanti lavoratori e cittadini. Ma soprattutto tendono a rendere più equo e più competitivo il nostro Paese. Oltre a interventi su lavoro, welfare e società, riteniamo che ci sia bisogno di sviluppare più cultura e presenza manageriale nelle aziende e nell’economia, pubblico e privato indistintamente. In generale, ma ancor più per quanto riguarda il management, non solo i giovani, che meritano il loro spazio, ma le donne e gli over 50 sono e devono essere una risorsa importante per il futuro.
In conclusione, cosa possono fare i manager per il nostro Paese?
I manager possono e debbono dare competenza, esperienza e la spinta per conseguire gli obiettivi di sviluppo e competitività in una logica europea. Noi crediamo di saperlo fare e chiediamo di essere messi in condizione di poterlo fare.
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