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Marina Salamon: «Il coraggio della verità»

Le competenze, da sole, non bastano per garantire un futuro solido a un’azienda, che si tratti di abbigliamento, ricerche di mercato o comunicazione digitale. Perché ognuna rappresenta un ecosistema delicatissimo dove le persone sono il vero capitale sociale. Parola della nota imprenditrice lombardo-veneta

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Da Doxa (ricerche di mercato) ad Altana (abbigliamento di lusso per bambini) passando per Connexia (digital marketing) e la casa madre di tutte, la holding Alchimia (azionista anche di Banca Ifis), Marina Salamon è un’imprenditrice che ha tenuto poche cariche per sé («giusto qualcuna per poter scrivere qualcosa su LinkedIn»), non ha alcun ufficio (si fa ospitare di volta in volta da questa o quella scrivania nelle sue aziende), tuttavia è una figura molto presente e impegnativa. Quasi ingombrante, nel senso alto e positivo del termine, perché stiamo parlando di una donna vulcanica e complessa, anche sotto il profilo interiore, con una laurea in Storia e in procinto di prenderne un’altra in Teologia, e che ha fatto della sua filosofia imprenditoriale una fortunata occasione di sviluppo visto che le sue società hanno continuato a crescere in termini di fatturato (tutti gli utili vengono reinvestiti) e di occupazione. Un tocco, il suo, non semplicissimo da descrivere – così com’è lei, a capo di una famiglia allargata con quattro figli di cui una in affido e una nutrita muta di cani e gatti, perennemente in viaggio tra Verona, Milano, gli Usa dove vivono e lavorano tre dei figli e Birmingham dove si è trasferita la figlia sposata – che richiederebbe una visita nelle sue aziende, vedi la sede della milanese Doxa, dove visivamente predominano il legno, i tessuti etnici, i colori caldi, gli oggetti normalmente destinati agli scaffali della vita privata di ognuno (conchiglie raccolte in spiaggia, valigie, libri e mobili tra il vecchio e l’antico) che qui fanno parte dell’arredo “corporate”. Tutto scelto personalmente, acquistato e “voluto” dalla padrona di casa.

«I do not draw a sharp distinction between economics and ethics» (Mahatma Gandhi)

So che è un azzardo in un momento storico in cui la crisi ha costretto tutti a rifugiarsi nella “sostanza” delle cose, ma vien da chiedersi e da chiederle: le aziende hanno un’anima? Certo che le aziende hanno un’anima, tutte le aziende ce l’hanno, così come le scuole, perché sono luoghi in cui si vive e, di fatto, delle comunità. Quello di comunità è un concetto che intendo nel senso più alto e completo del termine, alla Adriano Olivetti. Le aziende sono realtà che purtroppo hanno sostituito altri tipi di aggregatori perché la società è cambiata e ritrovarsi nelle strade, nelle piazze, non è più possibile. Ormai si vive molto all’interno dei luoghi di lavoro.

Ci descrive l’anima delle sue imprese? Come l’ha forgiata? Secondo me, l’anima è figlia dell’imprinting che i titolari, gli azionisti e i manager sono capaci di dare. Ad esempio, io potrei aver arredato questo posto (si riferisce agli uffici di Doxa, Connexia e delle altre società con sede a Milano, ndr) in modo apparentemente accogliente, ma se il capo (Vilma Scarpino, ndr) non fosse una persona che viene a lavorare in bici, ma con l’autista, non tornerebbe niente. Sarebbe tutto un bluff e la gente è troppo intelligente per non accorgersene. Lo stesso accade in famiglia, dove ciò che si predica non conta: bisogna testimoniare con la propria vita. Ma in ogni gesto, dalle cose più piccole, come magari nel recupero dello yogurt scaduto, alle più grandi… Il lavoro riveste un ruolo fondamentale, non solo per le ore che vi si dedicano, ma perché la nostra è una società fatta di individui soli, dove i rapporti affettivi non sono fonte di certezza come lo erano per le generazioni precedenti. A maggior ragione quello professionale deve essere un luogo di giustizia, dove non si deve aver paura, né sentirsi soli, o un numero. Al lavoro bisogna dare e ricevere come un essere umano nella sua globalità. Io stessa in ciascuna delle mie aziende ho portato anche pezzi della mia vita, come la credenza di mia nonna o una valigia di mio nonno. Questo per dire che, a mio modo di vedere, il reale patrimonio delle aziende sono le persone prima ancora che i capitali, e sono certa che questo punto di vista diventerà sempre più centrale. Esistono aziende dove i bilanci sono mensili, se non settimanali, dove le persone vengono misurate in base a un numero scritto sulla riga finale di un report. Da noi invece ci siamo ritrovati con gente che ci diceva: «Voglio venire a lavorare con voi perché mi sento a casa»; chi lavora qui ha libertà di entrata per quanto riguarda l’orario, abbiamo abolito del tutto i cartellini, c’è una grande cucina dove la gente ovviamente mangia, ma può decidere anche di organizzarci le riunioni.

Le passioni di Marina Salamon

La sua sembrerebbe una vision che non contempla la mediocrità… Più che di mediocrità, dico che la vita è fatta di una quantità variabile di intelligenze e di attitudini. Anch’io all’inizio credevo che contassero le competenze e l’eccellenza ed ero molto indietro sull’analisi. Poi ho imparato che, a differenza di quanto la scuola italiana insegni – e su questo la scuola è colpevole, perché i voti, i giudizi sono sempre individuali e non si promuove il lavoro di squadra – la cooperazione è fondamentale. Questo non può essere un mondo fatto di individualisti che corrono da soli verso la meta. È una lezione che ho appreso dal rugby, sport praticato dai miei figli, dove chi corre in avanti con la palla in mano solitamente viene placcato, ecco perché la regola è passarla all’indietro. È l’unico modo di far avanzare il gioco. La vita è così: l’obiettivo non deve essere quello di acquisire un cliente, ma di dare continuità a un progetto, a un rapporto. Per questo nel tempo ho smesso di cercare profili ultra-intelligenti che però puntualmente sono poco amati, come accade a scuola con i primi della classe.

Ha la sensazione che la percezione dell’anima di un’azienda sia diversa tra chi la gestisce, il manager, e chi la crea, l’imprenditore? Secondo i tradizionali schemi – anche un po’ superati – sembrerebbe di sì, perché il manager guarda solitamente al suo bene, alla sua remunerazione, alla sua carriera, mentre l’imprenditore costruisce valore in orizzonti più ampi. Personalmente ritengo che col tempo i due ruoli si mescoleranno, anche se non sarà sempre possibile. Perché ho visto intorno a me manager molto bravi non trovare più un senso in una carriera fine a se stessa, altri che hanno abbandonato impieghi prestigiosi per giocarsi tutto dentro un progetto nuovo che non era quello di avere più soldi, bensì una qualità di vita e di valori più alti. Il lusso, il vero lusso per queste persone è sentirsi bene all’interno della propria vita, senza scissioni con il lavoro. I manager sono prima di tutto delle persone, con aspirazioni ed emozioni, per questo nelle mie aziende abbiamo adottato lo schema dell’imprenditoria diffusa dove i dirigenti sono anche azionisti. È l’unico modo per far crescere nuovi progetti, creare delle startup, ed è questa la ragione per cui qui anche negli anni più brutti, quando calavano gli investimenti in comunicazione, ricerca e pubblicità, non abbiamo sofferto.

Questo approccio si adatta meglio alle pmi o alle multinazionali? Ovunque, perché è un atteggiamento che si basa essenzialmente sul coraggio della verità. Questo non vuol dire essere buonisti a tutti i costi. Anzi, a me è capitato di essere intervenuta in maniera molto dura, fortunatamente di rado, su alcuni manager.

In quali circostanze? Dove c’era disonestà, quando qualcuno ha provato a “fare il furbo” o si è comportato in modo arrogante, trattando male i collaboratori. Lì sono intervenuta con la forza di un panzer, perché ho il dovere primario di proteggere in basso, non in alto. Il motivo è che dai capi dipende il lavoro di tanta gente. E, se serve, ha senso “farne fuori” uno per salvarne cento, su questo mi sento molto americana. Un ambiente di lavoro è un ecosistema delicatissimo e se un manager, anche se estremamente dotato, ha poca intelligenza emotiva, le conseguenze possono essere disastrose. Infatti, nello scegliere le figure apicali, do molta importanza ai valori, all’umanità. Essere buoni, essere umani, non significa essere vigliacchi, far finta di niente e girare la testa dall’altra parte. In questo senso quello che sta mancando nelle aziende grandi o piccole è la capacità o il coraggio di raccontarsi, di spiegare. I capi devono comunicare e, se non possono incontrare tutti i colleghi personalmente, devono fare come i ragazzini che interagiscono tra loro magari attraverso un video: la comunicazione non è fatta di mail, ci vuole la faccia, la testimonianza del proprio modo di vivere. E questo non vale soltanto nelle aziende. Sta contando molto anche in politica. Penso a Obama: è bravissimo o meno? Non abbiamo modo di verificarlo. Però conosciamo il suo sguardo, il suo modo di parlare alla gente, che è estremamente efficace.

Nelle aziende manca la capacità di raccontarsi,

i capi devono comunicare se stessi.

Non bastano le email: ci vuole la faccia,

la testimonianza del proprio modo di vivere

In cosa consiste l’orgoglio di creare un’azienda? Lo vive più come una responsabilità o piuttosto come un privilegio? Rispondo con una frase di Papa Francesco, «Il vero potere è il servizio», e con la parabola dei talenti: ognuno di noi ha ricevuto dei talenti e il suo compito è farli fruttare e restituire in quantità maggiorata. Per me fare impresa significa costruire posti di lavoro, ma non posti da contare, bensì progetti. E soprattutto essere imprenditore in un’Italia come questa vuol dire costruire opportunità di vita e di lavoro, non esercitare un potere o un ruolo. Per questo ho conservato pochissime cariche su di me, il minimo indispensabile per poter scrivere qualcosa sul mio profilo LinkedIn (ride). Per il resto, spesso non sto neanche nei consigli di amministrazione. Ormai, sono fuori dalla gestione operativa di tutte le aziende: sto dietro le quinte e faccio l’azionista utile. Mi sono accorta che altrimenti la mia figura di governo rischierebbe di schiacciare e soffocare le altre individualità. Per me è molto più importante accorgermi di come si lavora in un contesto, di come un capo si pone rispetto alla sua squadra. È importante avere uno sguardo lungo perché mi è molto chiaro che se l’orizzonte italiano è per forza di cose difficile, per quanto mi riguarda devo riuscire a costruire progetti che reggano nel tempo. Non mi interessa fare qualcosa e poi tra tre anni chissà. Il mio scopo è dare una prospettiva buona, seria e vera alla gente. La responsabilità è un privilegio, e lo è in ogni gesto. Come con un amico: il privilegio è sì ricevere affetto da lui, ma soprattutto sentirsi responsabili nei suoi riguardi, accorgersi se sta bene, ascoltarlo, fargli una carezza quando ne ha bisogno.

1992Marina Salamon fonda Altana, azienda con sede a Treviso che muove i primi passi nel tessile producendo camicie di seta, per poi diventare leader in Italia nell’abbigliamento luxury kids. L’organico è di 150 persone che gestiscono tutta la filiera produttiva, dal design alla distribuzione.

1991È l’anno dell’acquisizione di Doxa, fondata nel 1946 da Pierpaolo Luzzatto Fegiz e diretta dal 1956 da Ennio Salamon, padre di Marina che acquista l’azienda dagli eredi del fondatore.

2009Connexia è la prima società che opera nel digitale a entrare nell’orbita della Salamon. Fondata nel 1997 da Paolo D’Ammassa, che ne è l’a.d., Connexia è una full service engagement agency che si occupa di Web, social e public relations

2010La famiglia delle ricerche di mercato si allarga con Duepuntozero Research (oltre che con altre realtà come Doxapharma, Doxa Marketing Advice, Doxa Crm e Doxa Digital), nata per supportare i clienti nello studio degli ambienti digitali e della comunicazione di brand.

2013iCorporate è l’ultima nata in Alchimia, la holding che controlla le società di Marina Salamon. Si occupa di comunicazione strategica, corporate e finanziaria per la gestione di rapporti con i media tradizionali e digitali.

Sta dicendo che l’imprenditore può, anzi deve, assumere le decisioni col cuore? Credo che il pensiero imprenditoriale sia un’intuizione e che come tale muova necessariamente dal cuore. Ma non bisogna esaltare il cuore a prescindere. Per quanto mi riguarda so anche essere molto razionale: un minuto dopo aver avuto un’idea, mi metto a studiare e uso la logica. Che vivo come uno strumento al servizio di una decisione istintiva. Per esempio, mi arrivano molte offerte di startup, di acquisizioni, alcune sono anche molto creative, ma se appartengono a un settore che non è il mio, che non è sinergico alle attività già avviate, rispondo di no perché non sono competente: non saprei rendermi utile. Una volta passato questo filtro, se ho un’intuizione positiva, comincio ad analizzare i competitor, a vedere cosa c’è sul mercato e a scandagliare tutti i canali distributivi cercando di capire quali sarebbero le risorse umane da poter integrare. Ecco, in questa fase divento tremendamente lucida e razionale.

Nelle sue aziende l’età media è molto bassa. Le nuove generazioni sono a volte criticate, a volte stigmatizzate, altre compatite. Come sono i giovani nel mondo del lavoro? Come li vede? Quando li guardo, più che giudicarli, li vedo come se fossero i miei figli, li capisco, e penso che questo non sia un Paese giusto per i giovani né per le donne. E quindi non c’è altro da fare se non dare testimonianza diversa, più che teorizzare. Non è un caso che nelle mie aziende abbia messo insieme soprattutto giovani e donne, per me rappresentano entrambi le facce di una stessa medaglia, quella di un contesto che è passato troppo velocemente da un’economia immobile nei secoli a una postindustriale.

A proposito di donne, hanno senso le quote rosa? Non le amo a prescindere, perché il rischio è quello di ghettizzare la presenza femminile nelle aziende come si è fatto con gli indiani d’America, confinati nelle riserve senza che fosse sostenuta la crescita economica e sociale delle loro terre. In Italia le leggi sulle quote rosa hanno inciso poco, sono simboliche perché riguardano i consigli di amministrazione delle società quotate. Certo, è una cosa positiva che ci sia una percentuale di donne ai vertici aziendali, ma non è una disposizione che impatta sull’economia reale e sulla vita di ogni donna. Si tratta più che altro di attuare un cambiamento in ogni realtà, in ogni storia. Ma sono fiduciosa perché vedo sempre più donne laurearsi in materie scientifiche, e spero che saranno presto le leader di un futuro sempre più tecnologico. Accadrà anche qui, magari non con la stessa facilità con cui è accaduto in Nord Europa e negli Stati Uniti. La situazione odierna deriva dalla condizione delle nostre madri che lavoravano poco. Però credo che l’equalizzazione di opportunità sul lavoro sarà un processo molto veloce che arriverà nel giro di una generazione. Basta guardare quanto sono brave a scuola le bambine! Il problema vero, a mio parere sarà un altro: mettere insieme il lavoro con una vita affettiva e famigliare. C’è molta paura di impegnarsi.

Ma non sarà che pretendere di vivere appieno il lavoro e la famiglia sia troppo? Troppo? Non è troppo, è basico! Stiamo parlando dei fondamentali della vita. Il problema vero è che in questo mondo, dove metà delle coppie scoppia, c’è un clima di paura diffusa che rallenta la positività. Si tratta di un fenomeno generalizzato, che prescinde dalle possibilità economiche delle singole persone.

Perché le donne francesi fanno il 50% di più di figli di noi e lavorano di più? Dire semplicemente che lo Stato non aiuta è diventato uno slogan demagogico. Credo che il cambiamento debba anche partire da dentro le persone.

Si può ancora credere in un futuro governato dal merito? Ci sono mondi dove già adesso vince il merito. Io l’ho visto accadere e cerco di farlo succedere intorno a me.

Articolo pubblicato sul numero speciale L’anima delle imprese pubblicato ad agosto 2015