
Classe 1958, varesotta di nascita ma veneta d’adozione, Marina Salamon è titolare della holding Alchimia, di cui detiene il 100% delle quote azionarie. Controlla Altana (specializzata nell’abbiglimento bimbo alto di gamma), Doxa, Connexia e altre società legate al digital marketing, alle ricerche e alla creatività online
Nella sua azienda Marina Salamon sembra davvero un’ospite in casa d’altri. Ci riceve in una sala riunioni, borsone in mano e aria trafelata. La mattina è atterrata a Malpensa da New York, la sera ha un treno che la riporta a Verona, a casa dai suoi figli. Breve sosta prima di tornare a Treviso, dove c’è la sede di Altana, l’impresa da cui tutto ebbe origine. Oggi Marina Salamon è alla testa della holding Alchimia – tra le prime 220 italiane secondo il rapporto Mediobanca – che comprende società che spazia-no dal settore delle ricerche di mercato (Doxa e Duepuntozero Research) a quello del digital marketing (Connexia), della creatività on line (il nuovo progetto con Pierpaolo Bardoni, ex H-art) e dell’abbigliamento di lusso per bambini (Altana, per l’appunto, che da sola genera un giro d’affari di 106 milioni di euro, con un fatturato che è aumentato del 411% dal 2004 al 2011). Il suo segreto? La passione per la ricerca, e una sofferta maturazione che con gli anni l’ha portata a trasformare il suo ruolo di imprenditrice. Non più un capo, ma uno strumento al servizio del gruppo e delle persone che vi lavorano. L’obiettivo, stando alle parole di Marina Salamon, non è più comandare, ma convincere. «E soprattutto, se necessario, fare un passo indietro. Perché ci si guadagna in libertà».
Cominciamo dal portale Web of life, che racchiude l’elenco di tutte le attività che fanno riferimento alla holding Alchimia: è una specie di sistema a matrice etica. Ma rispetto alla realtà delle sue aziende, in cosa consiste questa premessa?
La matrice etica è assolutamente pragmatica. Io non mi considero proprietaria del denaro e dei beni nella maniera tradizionale dell’imprenditoria italiana. Ovvero che tutto quel che ho avviato è mio e lo passerò ai miei figli, no. Mi considero piuttosto uno strumento per costruire progetti e posti di lavoro, e do a me stessa e alla mia famiglia uno stipendio per vivere, uno stipendio normale e dignitoso, uguale a quello che ricevono i manager. I profitti rimangono nelle aziende e vengono reinvestiti al servizio del lavoro, con assoluta solidità. Significa per esempio che per quanto possibile non affittiamo strutture, si capitalizzano le aziende edificando delle sedi in cui magari è possibile lavorare in modo un po’ meno tradizionale, luoghi di lavoro in cui non ci sono barriere tra clienti e dipendenti. Oggi gli uffici sono diventati luoghi di aggregazione e incontro. Sono saltati gli oratori, i partiti, tendono a saltare le piazze, e persino gli shopping center. Quello che vorrei fare è restituire un pezzo di vita rimescolata col lavoro.
A che si deve questa convinzione?
Sono credente. Anzi, è cominciato tutto con lo scoutismo, e molto devo al legame con la mia figura-guida, San Francesco, che non mi ha mai abbandonato. Nemmeno quando mi sono sentita più lontana dalla Chiesa. Attenzione però: io non credo di essere “buona”. Negli anni sono stata molto dura con me stessa, e con gli altri. Solo dopo quattro maternità mi sono ammorbidita, e ho riconosciuto che avevo dato vita a delle aziende e le avevo fatte crescere quasi come fossero dei figli. Dovevo creare della distanza, ma stare attenta a salvare la parte buona di questo rapporto. Che è un bene per molti aspetti. Smette di esserlo quando ci impedisce di vedere i nostri limiti nella gestione dell’impresa. E credo che un grosso problema degli imprenditori italiani sia quello di arrivare a identificare la propria vita con l’azienda.
Lei come è riuscita a creare questo distacco?
Per i primi 40 anni della mia vita ho mandato avanti in prima persona le mie aziende di abbigliamento. Intervenivo su tutto, persino sulla scelta delle viti, delle cornici e dei corrimano da mettere in ufficio. Fino a che un giorno, senza che l’avessi preventivato, Barbara (Donadon, al fianco di Salamon in Altana dall’inizio degli anni ’90 e attualmente amministratore delegato della società, ndr) mi disse che così non poteva andare avanti: «Ti occupi troppo dell’azienda, delle collezioni», si sfogò, «in questo modo non costruisci un futuro solido all’azienda. Sarebbe meglio che trovassi un direttore generale e che mollassi qualche pezzo». E io le risposi che aveva ragione, e che avrebbe dovuto farlo lei. «Forse sì», mi disse lei. Sapevo che era una persona pulita, e che non mi aveva detto quelle cose con l’obiettivo di prendere il potere. Sapete, la cosa bella delle donne è che pensano fin troppo poco al potere. Hanno una loro purezza assoluta, un eccesso di introspezione, un enorme spirito di sacrificio…
…alla fine Barbara Donadon accettò, ma a quali condizioni?
«Forse sì», mi disse, «ma tu devi accettare di parlare con pochissime persone qui dentro. Puoi sorridere a tutti, occuparti dei loro problemi personali, ma senza interferire con la gestione». Io a quel punto risposi: «Mi dai sei mesi per imparare?» Ecco, andò così. E fu la prima mossa per non essere io più al centro di tutto.
Ha imparato il significato della parola delega…
Più che altro è stato accettare di non avere più potere, di dover convincere le persone e non comandarle, anche dove avevo maggioranza azioni. Il risultato finale è che io non possiedo più scrivanie mie. Uso sale riunioni senza prenotarle, o tutt’al più ho un angolo dove mi metto a lavorare senza disturbare.
Perché questa precarietà?
Perché è più bello, ti mette nella condizione di non avere più carta che si accumula su una scrivania, sta tutto in un Mac. Non sei più tu che ricevi la gente, ma tu che vai a trovare tutti, e nel farlo vedi il mondo con occhi diversi. A me questo stile di vita dà libertà, mi piace essere imperfetta, e arrivare per esempio nelle situazioni eleganti col borsone da viaggio.
Non è anche una cifra stilistica, il modo di rappresentare una personalità?
A me capita così. E comunque lavoro in tante città, la mia vita è veramente così.
Sembra ci sia una buona dose di intuito e passione nella sua vita, soprattutto lavorativa.
Se fossi in grado di cavarmela solo con l’intuito e la passione sarei Maga Magò. C’è senz’altro anche questo, ma la verità è che ho imparato a fare ricerca. Io ho studiato storia e per anni ho coltivato diversi complessi per chi invece aveva studiato molta economia. Ma poi mi sono resa conto che, spesso, chi misura la realtà solo con le regole dell’economia ha un’idea un po’ rigida del mondo. Io non mi accontento di un’ipotesi, cerco di verificarla. E non mi vergogno di ammettere di aver cambiato idea.
Ne ha mai prese di cantonate?
Ce ne sono state alcune grosse. Una volta ho acquisito un’azienda (Methodos, dalla cui compagine azionaria Salamon è uscita, anche se l’azienda continua a lavorare all’interno dell’edificio che ospita le altre società della holding Alchimia, ndr) che non apparteneva a un settore di mia competenza stretta. E si rivelò un errore: i manager non avevano il mio stesso punto di vista, non credevano allo spostamento del lavoro verso il digitale e non volevano cambiare approccio. Io potevo anche possedere il 100% delle azioni, ma non avevo capacità di progettazione in quell’azienda, non ero in grado di cambiare in profondità all’interno di quel settore.
E la fabbrica di pannelli fotovoltaici avviata con Emma Marcegaglia…Anche lì ho preferito rinunciare per divergenze sui piani di sviluppo.
Non è semplice fare un passo indietro quando si è in corsa.
Ma è l’unico modo che conosco. Anche se questo significa passare attraverso una serie di momenti duri. Come quando per esempio ho detto a mio padre e a mio fratello che in azienda avrebbero comandato altre persone, perché sono più brave.
Lei ha una posizione molto chiara rispetto al concetto di imprenditoria. Ma ha mosso i primi passi in un’epoca completamente diversa. Che cosa direbbe a un imprenditore che comincia oggi la propria attività?
Gli direi di non cominciare con arroganza, di non avviare un’impresa con la convinzione di essere stato ispirato dal cielo, pensando di saper fare tutto. Bisogna cominciare lavorando nel settore di riferimento, imparando dall’interno quali sono i limiti, i valori, i difetti. E capire cosa del proprio progetto è migliorabile: che si tratti di una trattoria o di una società Internet è impossibile saper fare da subito tutto. Credo che quando ho cominciato io ci venisse perdonato un po’ di più. Ricordo che nei primi anni nel settore dell’abbigliamento tiravo su qualsiasi ordine, e poi mi ritrovavo a consegnare in ritardo. Oggi sarebbe semplicemente inconcepibile.
Ha dichiarato che i Benetton sono stati degli ottimi maestri proprio perché le hanno permesso di sbagliare…
È vero: quando sono partita, Gilberto mi ha dato consigli usando delicatezza e fermezza, e mi ha lasciato abbondantemente sbagliare da sola. C’era un mondo manifatturiero che oggi è molto più difficile da avviare in Italia, ma non è impossibile: esistono montagne di storie buone.
Tra le varie attività, diverse sue aziende si occupano di ricerche di mercato e marketing digitale. È un settore che sta attraversando un momento di discontinuità: cambiano i ruoli di aziende e clienti e di conseguenza cambiano anche gli strumenti. In che direzione vi state muovendo, e che sensazione avete in relazione a questo contesto, alla consapevolezza delle imprese rispetto al tema?
Il cambiamento sta avvenendo a macchia di leopardo ed è quel che sta succedendo in generale a tutta l’Italia in questo periodo storico. Non esistono settori di eccellenza, ci sono attività che ce la stanno facendo all’interno di comparti omogenei. Il tema è quello del posizionamento dell’azienda, del brand e delle competenze manageriali. Anche la pubblicità tradizionale sta cambiando violentemente: sarebbe accaduto comunque, ma la crisi ha accelerato il processo. Noi siamo nati nel mondo delle ricerche di mercato, quello che fino a non troppi anni fa sembrava il più faticoso, il più scomodo e facevamo un’enorme fatica per avere gli stessi risultati di chi si limitava a vendere pubblicità. Oggi si sta rivelando un luogo straordinario di pensiero e di progetto. A patto che sia integrato col digitale. Google ha già superaro Sipra ed è secondo solo a Mediaset, è un segnale spaventoso. Non vogliamo delimitare tutto il digitale, ma i fronti su cui sappiamo creare lavoro e agganci con clienti.
I vostri progetti in questa direzione?
Ho comprato Doxa nel ‘91 per amore di mio padre (Ennio, storico amministratore delegato della società di ricerca, ndr): era il suo lavoro, non il mio. Io non ci capivo niente ed erano anni che non mettevo piede in queste realtà a Milano. Ma nel 2006-2007 mi resi improvvisamente conto che o vendevo Doxa a una multinazionale o cambiavo tutto dall’interno. Così abbiamo integrato negli anni successivi altre società specializzate per aggregare competenze: cito Connexia e 2.0 Research, che in Italia è la Ferrari delle ricerche on line, per qualità e posizionamento. Adesso stiamo andando avanti nella direzione del Web marketing, e proprio il mese scorso abbiamo creato una società di eccellenza nell’interaction design, The Internet of things, affidata a Pierpaolo Bardoni, ex direttore commerciale di H-art, che era del nostro concorrente. Con lui non ho lavorato su obiettivi di budget, ma sulla possibilità di realizzare un luogo di formazione e avviamento al lavoro per individui o microsocietà che rappresentano sul panorama digitale una riserva di talenti, ma che sono isolati. L’intento non è quello di creare start up sperando che un giorno arrivi la Silicon Valley a comprarsele. Vogliamo insegnare dando lavoro e mettendo in rete meravigliosi artigiani del digitale. Questo è lavoro vero e, se non ci sbrighiamo a crearlo a Milano, lo porteranno via dall’Italia: basterà prendere dei traduttori e lo si potrà fare, per quanto riguarda gli aspetti tecnologici a Bangalore, in India, mentre le agenzie creative potranno essere a Londra o in qualsiasi altra parte mondo.
E i social network? Stiamo assistendo all’adozione di questi strumenti da parte di un’utenza con un’età sempre più elevata… Se cambia il target, che andamento dobbiamo aspettarci nella creatività digitale?
Io sono sicura che i social media cresceranno ancora tanto: saranno una magnifica opportunità per il mondo del lavoro, e si rimoduleranno con altri tipi di attività. La Rete non è uno mezzo diabolico, e anche uno strumento come Facebook riempie pezzi di solitudine. Senza contare che le nuove tecnologie ci hanno permesso di rivoluzionare il modo di essere (o non essere) in azienda. E non pensiamo che i vecchi ne saranno esclusi: gli anziani sanno usare il Web, o lo stanno imparando a usare, e spesso è molto più facile navigare che compiere operazioni complesse, come per esempio aprire un conto on line. E fa compagnia.
A proposito di social media, lei che ha avuto anche esperienza in politica, nel ’92 con Alleanza democratica e poi nella giunta comunale di Venezia, cosa ne pensa del fenomeno Grillo?
Ci sono tanti modi di usare la Rete. Io con alcuni approcci del Movimento 5 Stelle non sono d’accordo. Perché in termini economici capiscono pochissimo, e spesso fanno un uso strumentale dei dati. Per certi versi mi ricordano molto il peronismo. Ma prendo atto del fatto che il 21% degli elettori si dichiara disponibile a votarli. Direi che il fenomeno è assimilabile a quel che è successo in Germania, dove il Piratenpartei ha conquistato il 15% dei voti. E non sono mica cretini i tedeschi! Senza uscire dal discorso della Rete, le posso dire che io sono una dei 200 firmatari che hanno sottoscritto il progetto di Oscar Giannino. A fine settembre, con un avviso fatto circolare solo sul Web, senza stampare nemmeno un volantino, Giannino e gli altri esponenti di “Fermare il declino” sono riusciti a richiamare più di 2.000 persone al teatro Dal Verme di Milano. Hanno esposto posizioni difficili da spiegare, da far accettare alla maggior parte degli italiani. Ma io credo nel valore di chi prova ad affermare idee coraggiose. Perché i ricercatori di valore devono andarsene da questo Paese, mentre nessuno può mettere le mani sui professori? Perché un De Bortoli ha dovuto scrivere una lettera per pregare i propri giornalisti di permettere che i loro scritti venissero pubblicati anche on line?
In Italia è quasi sempre così: certi diritti sembrano inviolabili.
Non per tutti. Chi di noi è stato sul libero mercato ha dovuto combattere: lì o ce la facevi o morivi.
E lei non ha intenzione di tornare alla politica attiva?
No. In questo momento la mia necessità non è quella di andare in Parlamento. Ora voglio creare lavoro e crescere i miei figli. Almeno per qualche altro anno. Senza contare che in questa Italia soffrirei molto. Mi hanno offerto candidature, è vero. Ma non per le mie competenze, solo per la mia faccia. Temo siano le regole di questa civiltà mediatica. Però io non sono una velina… In ogni caso, anche per il futuro il Parlamento lo escludo di sicuro. Un giorno mi piacerebbe servire una cittadina, occuparmi di progetti sulla realtà locale, come la creazione di biblioteche o mediateche per i giovani e gli anziani. Ecco, diventare un civil servant, per dirla all’inglese. Ma è un’idea senza scadenze.
Un’ultima domanda. Da imprenditrice e da azionista di una banca, la Ifis, come interpreta la questione della stretta creditizia?
Assumendo l’ottica dell’imprenditrice, mi dà grande dolore vedere quanta fatica le aziende stiano facendo a ottenere credito. Se i mezzi li hanno da parte, ce la fanno e le banche gliene concedono ancora con rating di merito a cifre molto basse. Anche se magari non ne hanno urgente bisogno. Mentre chi è in difficoltà riesce a ottenere capitale solo a un costo del denaro molto elevato, ammesso che il prestito sia concesso. Tutto ciò fa male al futuro dell’economia, e malissimo al futuro del lavoro. Ma assumendo l’ottica degli istituti di credito, va detto che le sofferenze bancarie, ovvero i crediti dubbi, sono cresciuti del 50% negli ultimi tre anni. Le banche devono mettere a perdita questi crediti e il meccanismo impatta negativamente sul loro rating. Dunque anche per le banche non è affatto semplice. Ma c’è di più: l’Italia è un Paese dove esistono aziende povere e famiglie ricche. E alla sottoscritta, che ha seguito una strada diversa, che ha lasciato tutto nella propria holding e di intestato a sé possiede solo la casa in cui vive, viene da pensare che a essere un po’ anomalo è il nostro sistema imprenditoriale, all’interno del quale i soldi vengono estratti dalle aziende per comprare yacht e case.
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