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Meritiamo più meritocrazia

Ripartire dalla manifattura per riscoprire l’etica della bellezza: è questa la ricetta per la ripresa di Antonio Calabrò. Perché nel nostro Paese la neo-fabbrica, moderna e digitale, è l’unica riserva dove i giovani possono crescere riscoprendo il legame tra umanesimo e tecnologia

Se il futuro dell’Italia fosse in fabbrica? Siamo, in fondo, il secondo grande Paese manifatturiero europeo, subito dopo la Germania, con 4.600 imprese medie e medio-grandi, “multinazionali tascabili” che sono il cardine del nostro capitalismo e possono diventare locomotive per la ripresa. Il futuro è nel ritorno al tornio? Sì, a patto che sia un tornio digitale, in un’industria 4.0. È questo il pensiero di Antonio Calabrò, classe 1950, ex direttore editoriale del Gruppo Il Sole 24 Ore e oggi consigliere delegato della Fondazione Pirelli, vice presidente di Assolombarda e responsabile del Gruppo Cultura di Confindustria: la neo-fabbrica, infatti, è «l’unico ascensore sociale che funzioni nel nostro Paese, dove molto spesso si cresce perché si è bravi e si premia il merito». Ma se non vogliamo perdere il treno dello sviluppo serve anche combattere l’illegalità («a Milano c’è ancora la ’ndrangheta») e le confraternite del potere, investire in innovazione e premiare i giovani che lo meritano e le imprese che sanno stare sul mercato pagando le tasse. Altrimenti si rischia di non cogliere le chance della ripresa.

Si parla tanto di ripresa, ma è arrivata davvero? A sentire gli imprenditori, serpeggia ancora un generale pessimismo…. Ci sono sentimenti contrastanti e aspettative diverse nell’animo degli italiani. In generale, si respira un clima di moderata, cauta fiducia nelle città del Nord, dove l’economia è ripartita, e nelle imprese più aperte alla competizione internazionale, che innovano, esportano, investono, crescono. Milano, metropoli vivacissima, sta attraversando per esempio un momento di grande, positivo dinamismo economico, sociale e culturale. Diverso è il quadro in una Roma afflitta da anni di mediocre governo e in un Mezzogiorno in cui la spesa pubblica in crisi non alimenta più l’economia, da cui decine di migliaia di giovani vanno via, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. È un Paese dai mille volti l’Italia, da guardare con molta attenzione, con la curiosità di chi vuole cogliere i segni diversi degli umori e del tempo e imparare a distinguere il senso e la portata dei problemi reali. La ripresa, insomma, è fragile, la crisi fa pagare ancora i suoi costi, ma tira comunque una moderata aria di rinnovamento. Da rafforzare, far consolidare.

L’ECONOMIA È RIPARTITA

DOVE LE IMPRESE INNOVANO

ED ESPORTANO

MENTRE DAL SUD

SI CONTINUA A EMIGRARE

Quali sono i peccati veniali dell’imprenditore italiano? E i vizi capitali?Esistono attitudini diverse, tra gli imprenditori italiani. Ci sono quelli ancora affascinati dal mito del “piccolo è bello”, ossessionati dalla proprietà assoluta dell’azienda, provinciali, troppo legati ai mercati locali. Gli imprenditori del familismo amorale. Ma ci sono anche le imprese con radici familiari e buona gestione manageriale, che innovano, investono, vanno all’estero, conquistano nuovi mercati: le multinazionali tascabili, le 4.600 imprese medie e medio-grandi censite da UnionCamere e Mediobanca che sono il cardine del quarto capitalismo e che consentono all’Italia di essere, nonostante tutto, il secondo grande Paese manifatturiero europeo, subito dopo la Germania. Imprese competitive, che possono fare da locomotiva del nostro sviluppo.

Quali sono i punti di forza dell’impresa italiana?Siamo fortissimi nella meccanica, nella meccatronica, nella domotica, nella chimica sofisticata e nella farmaceutica d’avanguardia, nella gomma, nella componentistica automotive, nella nautica, ma anche nell’arredamento, nell’industria tessile e dell’abbigliamento, nell’agro-alimentare. Abbiamo, insomma, un’ottima manifattura di qualità, che compete nel mondo sui prodotti di alta gamma, quelli a maggior valore aggiunto. E continuiamo ad avere piena consapevolezza della lezione di un grande storico dell’economia come Carlo Maria Cipolla che parlava di «italiani abituati, fin dal Medioevo, a produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo». In questa essenziale, geniale definizione, c’è la sostanza del miglior made in Italy: storia, impresa diffusa sul territorio, capacità manifatturiera, design – ovvero le cose belle – e gusto internazionale. Un patrimonio attuale da valorizzare continuamente.

Come lo si può fare?Investendo in innovazione, ricerca, formazione di qualità. Lavorando sulle infrastrutture, da quelle dei trasporti alla banda larga per favorire la rivoluzione digitale, i processi di trasformazione produttiva del cosiddetto digital manifacturing, o industria 4.0, le produzioni hi tech fondate sui big data, il cloud, le stampanti 3D, l’Internet delle cose. Favorendo le riforme della pubblica amministrazione e della giustizia. E facendo crescere la cultura dell’impresa e del mercato: buone regole, trasparenza, premio al merito. Un ampio progetto di sviluppo di qualità. Una grande scommessa politica, che deve investire anche il Mezzogiorno.

Ci sono ancora in Italia quelle che Guido Carli chiamò «le arciconfraternite del potere»?Certo che ci sono. Cambiate, magari indebolite, ma comunque attive per difendere poteri, privilegi corporativi, compromessi di basso profilo, corruzione diffusa.

Come si può, allora, fare emergere la parte buona della Penisola?All’Italia serve una grande svolta culturale, che deve riguardare anche il mondo dell’economia. Una cultura del mercato, che premi le imprese che pagano le tasse, rispettano le regole, favoriscono non le clientele e i gruppetti familiari, ma i giovani davvero bravi, preparati, capaci e meritevoli. Da tempo Confindustria insiste nelle battaglie sulla legalità, sul mercato, sulla correttezza fiscale, sulla competitività trasparente, sullo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Sono messaggi importanti che sono stati anche al centro del Giubileo dell’industria, l’udienza di Papa Francesco a 7 mila imprenditori italiani: un confronto costruito sui valori della giustizia e dell’impresa.

C’è ancora la ‘ndrangheta a Milano?Purtroppo sì. Sottovalutata per anni, si è espansa, ha inquinato politica ed economia, ha devastato ambiente e coscienze. Ha stravolto il mondo delle costruzioni, degli appalti pubblici e del commercio. Ha peggiorato la qualità della vita e del lavoro per migliaia di persone.

Come si combatte l’illegalità?La criminalità organizzata, la ‘ndrangheta, la camorra e la mafia, sono un cancro da combattere con estrema severità, con una repressione puntuale, efficace, durissima. Ma anche con un’ampia opera di prevenzione: gli uomini della ‘ndrangheta vanno trattati da nemici del mercato, dell’economia, della convivenza civile, dello sviluppo. Gesualdo Bufalino ci ha insegnato che la mafia sarebbe stata sconfitta da un esercito di maestri. Cultura, dunque. Trasparenza della pubblica amministrazione. Buone regole chiare, efficaci, applicate con intelligenza. E un’opera di sensibilizzazione sia nelle scuole che negli ambienti economici. Assolombarda da parecchi anni oramai ha messo la legalità tra i cardini della competitività: spieghiamo agli imprenditori che con la ‘ndrangheta, con la mafia, non ci può essere alcun dialogo, alcuna tolleranza. Le cosche criminali sono un disastro per la buona impresa, per l’economia di mercato, per gli industriali perbene.

Oggi l’idea di lavorare in fabbrica è in fondo alla scala dei desideri di un giovane, eppure lei ritiene che sia fondamentale il “ritorno alla manifattura”. Come lo spieghiamo a un ragazzo?Raccontandogli la fabbrica, portandolo a osservare e capire il fascino della qualità del lavoro ben fatto. Facendogli capire, fin dai tempi di scuola, che l’industria è cardine della crescita equilibrata dell’Italia e occasione di futuro per i giovani. Certo, anche in fabbrica ci sono ombre, favoritismi, errori. Ma, nonostante tutto, proprio il lavoro in fabbrica, nelle fabbriche moderne, digitali, sicure, green, è un’opportunità di dignità, sviluppo delle competenze, integrazione, valorizzazione delle capacità. Nelle imprese migliori, oggi, c’è l’unico ascensore sociale che funzioni: si cresce perché si è bravi, si premia il merito.

Uno dei suoi ultimi libri, pubblicato da Università Bocconi Editore, insiste molto sulla “morale del tornio”: cosa significa?È l’etica del lavoro industriale, della precisione, della qualità, del bello e ben fatto. La cultura del progetto e del prodotto. Il gusto della bellezza. E della tecnologia più sofisticata. La cultura politecnica che rilancia l’attitudine italiana a mescolare in modo originale competenze scientifiche e saperi umanistici. È la formula della migliore competitività distintiva dell’Italia, che trova un senso proprio a Milano, una metropoli che Assolombarda vuole fare crescere come smart city, come città “Steam”, un acronimo costruito sulle iniziali di scienza, tecnologia, educazione, arte, cioè cultura umanistica, e manifattura: il meglio delle qualità italiane.

Il futuro dei giovani italiani è al tornio o al computer?A un tornio digitale. Aldo Bonomi, sociologo attento alle metamorfosi economiche e sociali, parla di smanettoni e produttori manifatturieri d’eccellenza, di artigiani digitali. Il futuro è nelle neo-fabbriche in cui si realizzano sintesi virtuose tra produzione, ricerca, servizi. Una dimensione che è già d’attualità in molte industrie italiane.

MANCA UNA CULTURA

CHE PREMI

LE AZIENDE ONESTE,

COMBATTA LE CLIENTELE

E PUNTI SULLE

NUOVE GENERAZIONI

Lei spesso suggerisce una formula di successo: «Creatività italiana e rigore tedesco». È ancora valida dopo il caso Volkswagen?Direi proprio di sì: tra il Nord del Belpaese e il Centro Sud della Germania si è sviluppata un’economia industriale di altissima qualità, che compete bene nel mondo, un cuore manifatturiero che può fare crescere l’intera Europa. Si tratta di un’economia ricca di relazioni, integrazioni, di competizione naturalmente, ma anche di collaborazione. La strategia vincente è insistere su innovazione e qualità.

Gli inglesi usano la parola “diversity” per intendere l’humus culturale che fa crescere un’azienda: si compone di lavoro femminile, di multiculturalismo e di attenzione al gender. Come si traduce tale concetto nelle pmi nostrane?L’importante è capire e valorizzare le sintesi culturali originali, dare spazio adeguato alle competenze femminili, all’intelligenza del cuore delle donne e alle loro specialissime attitudini. Nelle imprese italiane siamo ancora in presenza di intollerabili discriminazioni, anche se si sono fatti molti passi avanti. Oggi ci sono donne capaci, preparate, colte e sensibili finalmente anche in posizioni di vertice in parecchie realtà imprenditoriali. È una ricchezza per tutti. Vale la pena ricordare la lezione del premio Nobel per l’Economia Gary Becker: discriminare non solo non è giusto né morale, ma anche non conviene. Priva la società, l’impresa, la comunità, di competenze e intelligenze da valorizzare. Per crescere meglio tutti.

Dopo aver letto questa sua intervista, qual è la prima cosa che dovrebbe fare un imprenditore italiano?Investire puntando sull’innovazione per far crescere i giovani con uno sguardo curioso e brillante, innamorati del futuro. E continuare ad aprirsi al mondo.

E qual è invece la morale per i manager di domani?Leggere, continuare a studiare, essere curiosi e ironici, prendere atto che il futuro – in un mondo in cerca di nuovi valori – non è dei rapaci rampanti, ma delle persone responsabili con un forte senso etico e civile. D’altronde Adam Smith, il padre dell’economia liberale, era un filosofo morale, no?

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Antonio Calabrò, 66 anni, dopo aver diretto numerosi quotidiani e magazine, insegna all’Università Bocconi e alla Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, I mille morti di Palermo, La morale del tornio , Il riscatto , Cuore di cactus e Orgoglio industriale . È Senior Advisor Cultura di Pirelli e Consigliere delegato della Fondazione Pirelli. Responsabile del Gruppo Cultura di Confindustria, è anche vice presidente di Assolombarda e di Assimpredil, oltre che vicepresidente del Centro per la cultura d’impresa. Siede inoltre nei board di numerose società e istituzioni.