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Il coraggio della prudenza

Per la dinastia che guida da quasi 90 anni l’azienda di Fossano non è un ossimoro, ma l’unica strada per sopravvivere e rafforzarsi proprio quando il mercato è in difficoltà. «L’innovazione? È utile solo se migliora l’esperienza dei consumatori. Ed è per questo che va fatta dando prima di tutto ascolto a loro». Intervista ad Alberto Balocco, amministratore delegato di Balocco

Non è da tutti, in piena crisi, continuare a espandersi. Raggiungere nel 2012 un fatturato da 148 milioni, superando le performance del 2011 (già in crescita del 7% rispetto all’anno precedente), e per di più farlo in un settore, quello dei frollini per la prima colazione, che incide per l’86% sul mercato totale dei biscotti e dove il primo concorrente si chiama Barilla. Non è da tutti, ma la Balocco c’è riuscita. Nessuna ricetta magica, nessun ingrediente segreto. L’azienda di Fossano (Cn) specializzata nella produzione stagionale di panettoni e colombe semplicemente ha fatto della prudenza la sua arma vincente. Sarà la cultura contadina, che impone di avere sempre un po’ di fieno in cascina per quando arrivano i tempi duri, sarà quella piemontesità che in questo strano spaccato di nuovo millennio sta premiando più di un imprenditore proveniente dal Nord Ovest, sarà l’idea chiara di impresa che la famiglia Balocco ha e sostiene da tre generazioni. Fatto sta che la cavalcata prosegue, con continue correzioni di tiro dettate non solo dal management e dal marketing, ma anche dal mercato e dai consumatori. Ecco la concezione di impresa di Alberto Balocco, diffidente per natura non solo verso chi pensa di avere la verità in tasca, ma soprattutto della politica e dello Stato.

Una pasticceria della provincia cuneese che diventa il secondo player italiano nel mercato dei frollini, dietro una multinazionale che si chiama Barilla. Com’è iniziata questa cavalcata?

Tutto è cominciato con mio nonno, nel primo scorcio del ‘900. Subito dopo le elementari, in quegli anni, i ragazzini venivano mandati a lavorare, e lui da Fossano si trasferì prima a Torino e poi a Sanremo. Faceva il garzone di pasticceria, ed ebbe la fortuna di imparare il mestiere in due delle città in cui all’epoca si trovava la migliore scuola pasticcera italiana. Torino ancora risentiva del prestigio di essere stata capitale di un regno, mentre Sanremo era una rinomata località turistica a livello internazionale. Tornò 24enne a Fossano e aprì una pasticceria in piazza Castello, a cui fece seguito nel ‘29 quella in via Roma, la strada centrale del paese. Riuscì a raddoppiare l’attività in un anno tristemente famoso per l’economia mondiale.

Era l’unico pasticcere in paese?

No, a Fossano c’erano molte pasticcerie. Evidentemente gestire la propria attività in maniera oculata, prudente e solida gli aveva consentito di sfruttare la recessione come un’opportunità. In realtà è quel che succede in ogni crisi: per le imprese è un momento di selezione della specie. Chi ha le qualità per superarla, si rafforza.

Quali altri momenti di crisi ricorda?

Beh, durante la seconda guerra mondiale, a causa di un punto di vista politico non proprio allineato a quello di chi guidava il Paese in quegli anni, dopo l’8 settembre il laboratorio del nonno fu letteralmente messo a ferro e fuoco. Lui si rifugiò nelle Langhe, dove i suoi fratelli vivevano nelle zone già liberate da partigiani. E alla fine della guerra si è dovuto rimboccare maniche e ricominciare tutto daccapo. E questo spirito l’ha trasmesso anche a mio padre, che per dare un’impronta più industriale all’azienda ha dovuto lavorare un sacco. Non esagero se dico che io e mia sorella siamo cresciuti nel culto del lavoro e del sacrificio. Ma mi creda, essere allenati a stringere i denti è una piccola fortuna, soprattutto quando arrivano i momenti difficili, come quello che sta vivendo l’economia mondiale da cinque anni a questa parte. Noi, nonostante questo, siamo riusciti a crescere. Non in maniera tale da raddoppiare la dimensione dell’azienda, come aveva fatto mio nonno, ma poco ci manca.

Veniamo ai grandi balzi che hanno trasformato l’impresa…

Il primo è stato negli anni ‘70, quando mio padre con un po’ di coraggio e tanta lungimiranza decise di portare l’attività in un sito industriale più ampio, addirittura sovradimensionato per le esigenze dell’epoca. Questo però ha consentito all’azienda di potersi sviluppare negli anni successivi in modo considerevole. E poi un altro passo importante, sempre nello stesso periodo, è stato aver ragionato in grande in termini di comunicazione. Noi abbiamo debuttato su Carosello nel 1976 e questo ci ha consentito di farci conoscere a livello nazionale. È stato un po’ bruciare le tappe, se vuole, ma si è rivelato fondamentale per inanellare una serie di successi che negli anni ‘90 ci hanno permesso di puntare sulla destagionalizzazione, spostare il focus dai lievitati da ricorrenza ai prodotti per la prima colazione. Sembrava un azzardo, soprattutto con competitor molto forti, ma l’azienda ha pian piano risalito molte posizioni e ora siamo secondi con l’8% del mercato dei frollini.

Ha appena parlato di azzardo. Eppure nella sua famiglia la parola d’ordine sembra essere prudenza. E lei stesso l’ha elogiata in più occasioni, pur avendo investito negli ultimi cinque anni (di crisi) 27,25 milioni di euro in innovazione tecnologica… Cosa vuol dire essere un imprenditore prudente?

Secondo me, la prudenza è un valore che va d’accordo con la coscienza. Coscienza intesa non in termini emotivi, ma come negazione dell’incoscienza. Uno che non ha paura non avverte pericolo, ma aver paura è sintomo di equilibrio. Quindi, credo sia meglio porci di fronte alla realtà con un atteggiamento di cautela. Evitare di correre rischi eccessivi e non calcolati vuol dire evitare di far brutte figure. Sia chiaro: nessuno nasce imprenditore come fosse un diritto acquisito. Ognuno di noi deve mettere insieme meccanismi, best practice, approcci che aiutino a preservarsi da errori che comunque sono inevitabili. Però, se non si pone la giusta attenzione sulle conseguenze degli errori, si corrono rischi ancora più elevati.

A cosa si riferisce esattamente?

Molti imprenditori hanno più a cuore il benessere personale, anche dal punto di vista economico, piuttosto che il benessere dall’azienda. Io ho avuto un esempio in mio padre, che è stato tanto lungimirante quanto prudente, e in nome del principio “azienda ricca, famiglia povera” – anche se non ci è mancato nulla – non ha mai saccheggiato l’impresa. Ma il contrario di questo principio è alla base del modello che noi consideriamo imprudente. L’azienda ha per definizione un rischio intrinseco, specialmente quando ci sono cause esogene, imprevedibili. Ma se hai un’azienda non esposta a debito, che fa della ricerca dell’efficienza la propria ragione d’essere, aumenta la probabilità che resista nel tempo, e che diventi un bene sociale, della collettività. È questo il modo di lavorare che ci piace.

Quali sono gli errori o i rischi che teme di più?

A me fa paura ciò che non vedo. Noi vendiamo prodotti alimentari. Il nostro è un settore molto esposto a rischi non tangibili. Prenda, per esempio, il recente scandalo del ripieno dei ravioli con carne di cavallo. Le aziende che hanno avuto questi problemi si contraddistinguono per grandi dimensioni, controlli qualità strutturati e sistemi di previsione del rischio evoluti. Ma evidentemente i loro fornitori hanno fatto entrare nel capitolato una quantità maggiore di ingredienti comunque ammessi e non dannosi per la salute (in questo caso la carne di cavallo), che entro una certa soglia, credo, non debbano essere indicati sull’etichetta. Io non conosco nel dettaglio la normativa in questo ambito, ma direi che si tratta “solo” di un problema di etichettatura, e non invece di salute del consumatore. Ma nel momento in cui tutto ciò viene strumentalizzato dai media e monta lo scandalo, lo stabilimento incriminato rischia di chiudere e 200 addetti rischiano di rimanere senza lavoro, per un – non voglio sembrare superficiale – banale problema legato all’etichettatura. Ecco, quando sento queste cose a me si gela il sangue: evidentemente nessuno, nelle società coinvolte, aveva valutato quel tipo di rischio. Per questo noi ci inventiamo tutti i giorni qualcosa di cui diffidare, e iniziamo a controllare qualcosa che fino a quel momento non avevamo controllato. Tentiamo di ridurre al minimo errori tali da minacciare l’esistenza dell’azienda. Non possiamo mai stare tranquilli, visto che la nostra filiera ci impone di comprare materie prime in mercati anche molto lontani dall’Italia: lo zucchero arriva dai Paesi caraibici, le farine dal Nord America, i grassi dai Paesi tropicali, il burro dalla Germania e dalla Francia, le uova, è vero, arrivano dall’Italia, ma i mangimi delle galline…?

Parlando del benessere dell’azienda e non solo, lei ha dichiarato che per sostenere i consumi bisognerebbe aumentare il denaro che finisce nella busta paga dei lavoratori. Ma come?

Non ho la verità in tasca, ma a mio modo di vedere è una questione legata al cuneo fiscale. Bisogna ridurre l’imposizione dei contributi, il carico Irpef è troppo elevato. Nelle aziende del comparto alimentare il contratto entry level prevede una retribuzione lorda di 28 mila euro all’anno. Questo è il costo aziendale, ma al lavoratore in busta arrivano poco più di 14 mila euro. Il 50% finisce in tasse e contributi perché abbiamo la sfortuna di lavorare in uno Stato indebitato e spendaccione, e la mucca da mungere rimane inevitabilmente il lavoratore dipendente. Per spingere i consumi, andrebbe diminuita la tassazione per liberare reddito. Ma è un cane che si morde la coda, visto che i soldi non ci sono.

Cosa consiglia? Lasciare il contributo Tfr in busta paga? Applicare un credito d’imposta per acquisti e consumi in settori specifici?

Io il contributo Tfr, sempre per il principio della prudenza, lo lascerei lì dov’è. Credo sia utile avere un tesoretto per affrontare la vecchiaia, visti anche l’allungamento della vita media delle persone e il problema delle risorse da destinare al pensionamento. L’idea di bruciarlo in consumi mi sembra avventata. Rispetto all’incentivo ai consumi, non farei figli e figliastri: sono un liberista, e l’ipotesi di aiutare chi vende macchine piuttosto che Tv o lavatrici sulla base della vicinanza di certe aziende alla politica non mi piace. In questo Paese troppi hanno successo giocando a chi è più paraculo. Ma il mercato deve fare il suo corso, e la gente sa cosa comprare, i consumi ricadono nella sfera inviolabile della sua decisionalità, senza che lo Stato si metta ad aiutare il produttore di turno.

Lei non ha intenzione di entrare in politica, perché, dice, non si sente a suo agio dove vige l’arte del compromesso. Che tipo di modello manageriale adotta in azienda?

Ho una concezione dell’azienda “democratica”. Ma non voglio raccontare favole: sono un decisionista, mi assumo la responsabilità di quello che faccio, è per questo che sono pagato. Però non prendo una decisione senza aver ascoltato le persone intorno a me, soprattutto se le giudico competenti. Promuovo un modello partecipativo, grazie anche al fatto che l’azienda ha un organico piuttosto giovane, e avere a che fare con collaboratori che durante i momenti di confronto esprimono valore aggiunto, dà un enorme contributo all’analisi della situazione. Poi c’è sempre più di un consiglio giusto, ed è lì che un manager deve sapere decidere. Il bello della vita in azienda, rispetto a quella in Parlamento, è che quando prendi una decisione non c’è nessuno che ti dà del coglione per partito preso. In politica sei osteggiato a prescindere, per via del colore della casacca. Un atteggiamento fazioso e ottuso che farei fatica ad accettare.

Cosa ne pensa degli imprenditori che scendono in politica? Possono fare qualcosa di buono o crede che come si tocca questa sfera ci si contamina?

Non ne ho idea. Ci sono stati imprenditori che hanno affrontato la politica con successo e altri che hanno lavorato molto male, come qualunque altra categoria. Personalmente ritengo che ognuno debba fare il suo mestiere, a maggior ragione se quel mestiere ha una centralità sociale. In questo momento storico l’imprenditore ha una missione prioritaria, perché ha l’opportunità di dare lavoro. E in un Paese in cui non esistono più destra e sinistra, ma la pura e semplice idea che sia indispensabile migliorare il benessere delle persone, è il lavoro l’unica variabile che può cambiare davvero le cose. Quindi, se un imprenditore è bravo nella propria attività, è meglio che si concentri su quella.

Balocco, Boglione, Farinetti, Ferrero, solo per citarne alcuni. Siete un piccolo club di imprenditori di successo anche in momenti tutt’altro che facili. C’entra il concetto di “piemontesità”?

Credo di sì, l’uomo è un animale sociale, e vive di emulazione. Se vivi in un contesto in cui la molla che ti spinge è costituita dall’avere la macchina, la villa, la barca più bella, agirai toccando determinate leve. Se vivi in un posto dove la gara è su chi dà più occupazione, crea l’azienda più solida, produce maggior benessere per i lavoratori, l’attenzione si sposta su altro. Nella provincia di Cuneo pensiamo che sia più fruttuoso questo secondo tipo di contagio. Abbiamo una naturale propensione al risparmio, dovuta alla cultura contadina che sta alla base della nostra storia. E mettiamo sempre del fieno in cascina, per paura di quello che non possiamo controllare e che potrebbe accaderci nonostante si siano prese tutte le precauzioni. Ma ci contraddistinguiamo anche per la nostra tradizione liberista. Non dimentichiamoci che Luigi Einaudi scriveva che in Italia migliaia, milioni di individui si ostinano a fare impresa, con l’ambizione di migliorare costantemente, nonostante lo Stato faccia di tutto per scoraggiarli. Ecco perché, quando mi chiedono se prendiamo contributi o agevolazioni, possiamo rispondere che non sappiamo di cosa si stia parlando. Non contiamo sullo Stato, semplicemente perché lo Stato non c’è.

Qual è l’ambizione di Balocco? Dove sarà tra vent’anni?

È una bella domanda. Io a stento faccio programmi per una settimana. Dico solo che ogni giorno va vissuto con onore e dignità. E che bisogna dare il massimo per lasciare un buon ricordo di sé. Mi piacerebbe immaginare che questa azienda ci sia ancora, tra vent’anni, che sia cresciuta, e che abbia mantenuto i patti nei confronti delle aree di competenza a cui si è rivolta. Quando si lavora nel manifatturiero, nel largo consumo, non si ha la capacità di cambiare la vita come chi ha fatto invece chi ha inventato il vaccino contro la poliomelite. Sabin ha compiuto un’impresa straordinaria per l’umanità intera. Chi vende biscotti, invece, giustamente passa inosservato: per questo se sei riuscito a far prosperare l’azienda e la comunità, puoi andartene al creatore con l’anima in pace.

LE PASSIONI DI ALBERTO BALOCCO

Lo sport

Mi piace sciar, fare windsurf, andare in barca a vela, attività che presuppongono contatto con la natura, velocità e tecnica

La musica

Fin da ragazzino ascoltare (e guardare) musica mi ha aiutato a staccare, ad allentare la tensione. I miei gruppi preferiti sono gli Heart Wind and Fire e i Pet Shop Boys. Ma amo anche gli artisti che piacciono ai miei ragazzi, da Rihanna a Lmfao. In questo senso mia moglie dice che io sono il suo quarto figlio

La tecnologia

Quando sono in ufficio uso il BlackBerry, mentre l’iPad mi serve per “lavorare” nel tempo libero

Il cibo

Avendo una moglie napoletana ho sviluppato a tavola una cultura fusion. Ovvero passo in scioltezza dai friarielli alla bagna cauda

La lettura

Sono monotematico, ci sono autori da cui faccio veramente fatica ad allontanarmi, anche quando amici e parenti provano a farmene conoscere altri. Amo Frederick Forsyth, Ken Follet e Tom Clancy

Cosa bisogna infondere in un nuovo prodotto per renderlo vincente?

Di novità vere ce ne sono sempre di meno. Non necessariamente serve un’idea nuova, ma un metodo nuovo da applicare a un’idea esistente, per fare meglio dei concorrenti. Come ha fatto Apple con il lettore Mp3, o Google con il motore di ricerca. Noi, per quanto riguarda il settore più sfidante, quello della prima colazione (nei lievitati abbiamo da tempo posizioni di tutto rispetto), abbiamo cercato di usare la massima attenzione per prodotti seguendo il principio dell’High value, smart price. Per migliorare l’efficienza abbiamo spinto l’automazione al massimo. Negli ultimi dieci anni abbiamo investito più di 42 milioni di euro in tecnologia, e siamo riusciti a migliorarci proprio nel momento in cui altri hanno dovuto tirare i remi in barca. Ma ripeto: se uno è stato prudente e ha i numeri per continuare a fare investimenti, la forbice pian piano si apre. Ci sta anche aiutando il rapporto costante con consumatori, che danno continue correzioni al tiro. Non tutti i consigli che ci arrivano sono buoni, ma quelli azzeccati stiamo provando ad applicarli.

Per esempio?

L’ultima case history riguarda un prodotto al cacao, Mimicao. Abbiamo lanciato questi biscotti sette anni fa, e hanno sempre performato bene. La loro caratteristica è di essere decorati con delle faccine, come fossero degli smiley, con sorrisi, linguacce e altre smorfie. Ultimamente abbiamo ricevuto una serie di e-mail in cui i consumatori ci dicevano che i loro bambini fanno cherry picking: ovvero selezionano solo i biscotti col sorriso e non vogliono quelli con le smorfie. “Possibile che siano così viziati, questi bambini?”, ci chiedevamo noi. Ma te lo dice il primo, te lo scrive il secondo, te lo suggerisce il terzo, arriva la mail della maestra di Empoli che dice di apprezzare il prodotto, ma che sarebbe meglio se non ci fossero le smorfie… E così capisci che in tempi di crisi la colazione è il primo passo per far partire una nuova giornata. E il consumatore non vuole smorfie, solo sorrisi. Ecco perché abbiamo modificato il prodotto (cambiando anche la ricetta e rendendola ancora più caratterizzata al cacao) e l’abbiamo rinominato Le allegre faccine. Il payoff? “A colazione solo sorrisi”.

Detta così, sembra facile…

In realtà all’inizio a sorridere, con sufficienza, eravamo noi: non ci volevamo credere. Ci vuole un bel bagno di umiltà per cambiare idea e fare quel che ti dice chi sulla carta ne sa meno di te. È un processo scomodo, che va contro dogmi di fede aziendali per cui il marketing ha sempre ragione: noi produciamo, tu mangi. Senza contare che va messa in crisi la tua produzione, che funziona, e metti a rischio un processo d’acquisto già rodato. Quando proponiamo questo tipo di cambiamento tutti sbuffano, mi creda. Perché per rifare da capo una cosa che funzionava bisogna distruggerla, e per farlo ci serve coraggio.

Prima la Juventus, ora il Giro d’Italia. Qual è la spina dorsale della vostra strategia di sponsorizzazione?

Come le dicevo, abbiamo iniziato a parlare di colazione a fine anni ‘90. Il nostro primo spot sui frollini è andato in onda nel 2006, trent’anni dopo il debutto dei panettoni su Carosello. Abbiamo quindi tante puntate da recuperare. Per questo continuiamo a incrementare l’investimento in comunicazione (nel 2012 il 7% del fatturato). Ma la presenza in Tv, per dare equity alla marca, non basta. Serve un altro tipo di omologazione, che abbiamo raggiunto attraverso la maglia della Juventus. Portare il nostro marchio sulla maglia di una squadra di calcio importante ha automaticamente permesso a Balocco di vestire i panni di un’azienda importante agli occhi del grande pubblico. È un meccanismo d’emulazione che funziona molto bene, e rispetto a questo dobbiamo anche ringraziare la vittoria del campionato durante il nostro secondo anno di sponsorship, ottenuta dopo anni di tribolazione. La squadra indossava la maglia rosa stellata, e immediatamente dopo l’organizzazione del Giro d’Italia ci ha proposto di lavorare con loro. A quel punto, abbiamo risposto che o ci davano la maglia rosa, oppure non eravamo interessati. Caso vuole che Ferrero lasciasse il Giro dopo 15 anni, ed ecco che noi ci siamo trovati per magia sulla maglia rosa. Che è il simbolo della vittoria, ma anche della fatica, dell’impegno sportivo, un’idea insomma correlata a nostri valori. Ed è coerente con lo stile di vita che suggeriamo ai nostri consumatori. Sul retro delle confezioni dei nostri prodotti diamo istruzioni nutrizionali, proponendo combinazioni e soluzioni di cibi per una colazione equilibrata, e sempre concludendo con un invito all’attività fisica. Non avendo avuto la fortuna di scoprire il vaccino contro la poliomielite, questo è il massimo che possiamo fare per contribuire al benessere generale.

Credits Images:

Alberto Balocco, classe 1966, laurea in Economia e commercio, è amministratore delegato di Balocco Spa, l’azienda fondata nel 1927 dal pasticcere Francesco Balocco