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Prima la reputazione, poi gli affari

Chi sente parlare male di te, non vorrà fare affari con te. Ecco perché è importante avere un nome che ispiri rispetto e fiducia, lasciando che siano i fatti concreti a parlare. E l’errore più grave è quello di comunicare aria fritta. Parlano Jacopo Schettini Gherardini, Guido Argieri e Michele Tesoro-Tess

Il 17 settembre 2010 Interbrand presenta a Londra il ranking 2010 dei marchi globali a più elevato valore economico. Per la prima volta la British Petroleum non fa parte dei primi 100 classificati. Due giorni dopo l’incontro londinese, a quasi cinque mesi dall’inizio dello sversamento del petrolio, la British Petroleum riesce a chiudere definitivamente il pozzo sottomarino Macondo, all’origine della marea nera nel Golfo del Messico, uno dei più gravi disastri ambientali della storia. Nel corso dei lavori di Interbrand, Luc Bardin, il capo del marketing mondiale della British Petroleum, ammette «che ci vorranno anni per riportare la reputazione di British Petroleum ai livelli precedenti il disastro». Davanti a una platea di direttori marketing, creativi pubblicitari, manager di società di comunicazione, Bardin, dopo aver ricordato che la sua società ha più che triplicato gli investimenti pubblicitari nel corso dell’anno per cercare di rimediare al danno d’immagine provocato dall’incidente, conclude il suo intervento riconoscendo che «le azioni hanno un impatto molto più forte della parole». Per lungo tempo la British Petroleum (e non solo lei, purtroppo) pagherà le conseguenze della negligenza del suo management. Prendendo spunto dalle considerazioni di Bardin, viene da chiedersi se abbia senso per un’impresa cercare di costruire la propria reputazione su valori sui quali poi non è in grado di fondare il proprio agire quotidiano. Ancora di più nello scenario attuale, in cui il ruolo dei media digitali è sempre più predominante, dove le informazioni corrono più velocemente dei fatti e sono quindi difficili da controllare. Cercando di capire in che cosa consista per un’impresa la reputazione e quali siano i rischi reputazionali in cui potrebbe incorrere, l’economista Jacopo Schettini Gherardini, direttore esecutivo della Standard Ethics Aei di Bruxelles e ricercatore per la Scuola di Dottorato di Ricerca in Finanza dell’Università di Trieste, autore di Reputazione e rischio reputazionale in economia. Un modello teorico (FrancoAngeli, 2011) è giunto difatti alla conclusione che «la reputazione di un’azienda non si basa sui fatti e sulla manifestazione di fiducia da parte del consumatore, sull’idea che se “sono onesto, mi scegli”, come si è sempre pensato. Nulla di più falso: la reputazione di un’impresa non corrisponde mai alla realtà ma è piuttosto una sovrastruttura mentale, una manifestazione di fiducia che corre sui sentito dire, su opinioni riportate, notizie non verificate. La reputazione si basa su quello che credo sia, su ciò che penso sia accaduto, su qualcosa che qualcuno mi ha detto. Non più dunque sui fatti. In questo modo una buona reputazione si può creare (o distruggere) di sana pianta». Per Schettini Gherardini la reputazione può essere di scopo, quando la valutazione è basata sulla presunta capacità dell’azienda di raggiungere un determinato obiettivo: un manager, ad esempio, chiamato a effettuare dei tagli, avrà vita più facile se la sua fama è di un duro. O di tipo estetico-emotivo, quando l’azienda punta a far innamorare i propri interlocutori, a compiacerli con il fine di fidelizzarli. Infine la reputazione può essere “metafisica”, quando i giudizi si basano su precetti etici, religiosi, ideologici, che finiscono per la loro natura per essere dogmatici.Con tutto questo Schettini Gherardini non vuole dire che gli interventi nell’ambito della corporate social responsibility non incidano positivamente sull’andamento di un’azienda. Anzi: secondo un’indagine condotta da Standard Ethics Aei nel periodo 2002-2006, quelle società che hanno adottato i principi dell’Ocse e dell’Unione Europea in termini di responsabilità sociale (nell’ambito di interventi sulla governance aziendale e dell’attenzione alla sostenibilità) hanno ottenuto risultati di mercato migliori anche del 30-40% rispetto a quella realtà che se ne sono disinteressate. «Ma stiamo parlando di fatti, non di parole», precisa l’economista. «Il mercato difatti continua a guardare ai fatti, un piccolo particolare che le aziende non dovrebbero ignorare: la reputazione così diventa di secondo piano. Non è un caso che spesso l’andamento borsistico di un’azienda, vero indice del suo stato di salute, non coincida con la tenuta o meno dei ricavi. Insomma, nel contesto attuale, tenendo conto della crisi che ha sconvolto il sistema economico internazionale, il rischio reputazionale è diventato di primo livello. Farsi affascinare dalla gestione dei fatti piuttosto che dai fatti in sé è il primo errore in cui spesso cadono molte realtà imprenditoriali. Sarebbe meglio pensare di più alle proprie azioni e alla trasparenza del proprio modo di operare». Concepire la reputazione come veicolo comunicazionale, utilizzarla in modo tattico per un obiettivo di breve termine, è un grave errore in cui cadono molte realtà imprenditoriali. Ne sono convinti anche Guido Argieri e Michele Tesoro-Tess, rispettivamente research director e senior consultant reputation management and branding di Doxa. L’istituto di ricerca rappresenta in esclusiva in Italia il Reputation Institute (www.reputationinstitute.com), l’istituto che ha elaborato un modello di misurazione della reputazione d’impresa e che realizza per conto delle aziende, in Italia con Doxa, piani strategici della gestione della reputazione. Per Argieri e Tesoro-Tess il tema della reputazione indica «la maturità dei rapporti che un’azienda ha stabilito con i propri stakeholder: la reputazione è infatti di proprietà degli stakeholder e non dell’impresa». Partendo da questo assunto, si intuisce come la reputazione non possa essere amministrata dall’impresa. Semmai compito dell’azienda, per Argieri e Tesoro-Tess, è gestire i rapporti con i propri stakeholder per influenzarne i giudizi. Ma come può farlo? «Per il Reputation Institute», risponde Michele Tesoro-Tess, «un’azienda dovrebbe dotarsi di un reputation committee cross funzionale al suo interno per assicurare coerenza delle iniziative. Tutti, all’interno di una società, devono essere allineati alle promesse reputazionali espresse, perché tra quello che si dice e quello che si fa ci deve essere assoluta coerenza, pena la perdita di credibilità». L’impresa dovrebbe poi affidarsi ad un reputation risk management interno, pratica assai poco diffusa in Italia: una necessità resa ancora più impellente oggi, dato che la crisi economica del 2008 ha fatto crollare gli indici di fiducia delle imprese, ponendole così sotto la lente di ingrandimento degli stakeholder. Gli obiettivi di performance del reputation management devono essere integrati nei processi di business: la strategia reputazionale deve coincidere con la strategia di business. «Quelle imprese che riescono a costruirsi nel tempo un’ottima reputazione», conclude Tesoro-Tess, «possono contare su una maggiore fiducia da parte del mercato, della politica e della società. In questo modo sono in grado di procedere ad acquisizioni ottenendo deal più vantaggiosi rispetto ad altri player poco reputati, così come possono sviluppare più agevolmente la loro presenza in nuovi mercati, potendo contare su un accesso facilitato agli opinion maker e ai leader dei Paesi esteri. Oltre a garantire ai propri azionisti un miglior recupero e la solidità del prezzo azionario a valle di una crisi, nel caso dunque di un crollo sul valore del titolo in Borsa».