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Lifestyle

È scontro sulla “legge Versace”

La norma sulla tutela delle produzioni nazionali scatena la bufera tra i marchi della moda. Parlano Pignatelli, Menniti (Harmont&Blaine), Giuriato (Cycle Jeans) e Bracalente (NeroGiardini)

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Che avrebbe scontentato qualcuno e fatto gioire qualcun altro lo si sapeva fin dall’inizio. Che avrebbe innescato un nuovo dibattito sul significato delle tre paroline d’oro: “made in Italy” era più che logico. Ma forse nessuno aveva previsto che la nuova legge sull’etichetta da apporre su capi e calzature realizzati “prevalentemente” in Italia avrebbe messo tutti contro tutti, sia sull’impostazione generale della normativa, sia sugli effetti che dovrebbe generare sull’economia reale. I motivi dei malumori? Tra i grandi nomi della moda c’è chi parla di miopia, di provincialismo, di mancanza di tempestività e di coraggio dimostrati dai politici sulla tutela delle produzioni italiane. Santo Versace – l’onorevole Santo Versace, che insieme con Marco Reguzzoni della Lega Nord ha dato il nome al Ddl – non ci sta: i veri imprenditori, per lui, sono degli eroi. Agiscono secondo criteri di legalità e trasparenza, lavorano ancora artigianalmente e tutelano la produzione e la manodopera tricolore. E chi si sente danneggiato dalla legge sul made in Italy, che non fa che rimarcare l’importanza della tracciabilità dei lavorati, apparterrebbe a un’altra categoria molto diffusa nel Belpaese. Quella che lui definisce ‘i-prenditori’.

POCA LUNGIMIRANZA

Eppure non mancano detrattori della nuova normativa anche tra quelli che Versace non esiterebbe a chiamare eroi. Uno a cui questa legge proprio non va giù è Domenico Menniti, amministratore delegato di Harmont&Blaine. Menniti, che senza girarci troppo attorno si definisce paladino del made in Italy, parla di un problema internazionale affrontato con un’ottica da villaggio del ‘500. «La grande meraviglia è che uno dei primi firmatari della legge risponde al nome di persona interessata ai mercati internazionali», dice l’imprenditore napoletano. «Bisognerebbe rendersi conto che la competizione non è più tra noi e chi fa le patacche. I nostri competitor principali si chiamano Ralph Lauren e Tommy Hilfiger». Per Menniti la legge che entrerà in vigore a partire dal prossimo ottobre è un invito a chiudersi in una riserva indiana, come se si dovesse tutelare un prodotto dell’alto artigianato, quando invece il pubblico mondiale guarda alla parte software dell’Italia, allo stile di vita che ha saputo ispirare. «C’è ancora chi pensa che Valentino e Armani siano conosciuti per il tipo di cucitura utilizzata? È stato il loro talento nel proporre un’atmosfera a renderli celebri». Dell’efficacia della legge non è troppo convinto nemmeno Moreno Giuriato, presidente di Italservices, a cui fanno capo brand come It’s, Met e Cycle Jeans. Ma per lui il problema è opposto: «Qualunque cosa si faccia sul made in Italy, anche se in ritardo, è benvenuto, su questo siamo d’accordo», premette Giuriato. «Dobbiamo proteggere quel che ci rimane, certo, ma la mia critica riguarda il fatto che in Italia si fanno sempre le cose a metà. E a me non piacciono le leggi che possono essere interpretate. Il nostro settore dovrebbe essere al contrario regolamentato da una legge ferrea: fatta eccezione per la produzione del tessuto, che in Italia non esiste più, il taglio, il cucito, lo stiro e le varie applicazioni, tutto ciò che insomma serve per trasformare la pezza in un prodotto pronto per la vendita, dovrebbero essere operazioni svolte in Italia». Ma Menniti rilancia: «È un’idiozia dire che è buono solo il prodotto italiano fatto interamente in Italia. Credo che comprenderemo quale sarà la sorte del made in Italy quando tutti saranno costretti a pagare la lavorazione 25-30 euro l’ora». E anche se gli si chiede se per lo meno questa legge avrà il merito di spingere i consumatori del Belpaese a rituffarsi negli acquisti di prodotti realizzati in Italia, lui risponde scettico. «Mah, ci sarà comunque un problema di sostenibilità economica per le aziende. Non ci si rituffa in una piscina senza acqua. Ho visto in alcuni negozi camicette da donna a 250 euro. Erano di una grande griffe non italiana con appiccicato sopra un bel made in China». Del resto anche Giuriato ammette che le possibili interpretazioni della legge Reguzzoni-Versace vengono proprio in soccorso di quelle imprese che affonderebbero se si fosse data un’impostazione ferrea al regolamento. «Mi rendo conto che in termini di fatturato si verrebbe a perdere circa 70% di quello che noi oggi consideriamo come made in Italy. Ma noi dobbiamo proteggere la quantità o la qualità?»

POTERE AL CONSUMATORE

Lo stilista Carlo Pignatelli, più che sferrare critiche all’iniziativa parlamentare, spera che la legge Reguzzoni-Versace non rimanga lettera morta. «Il made in Italy è la garanzia nonché la certificazione del prodotto realizzato nel nostro paese, e pertanto va tutelato. Mi auguro che questa legge tuteli realmente il prodotto fatto in Italia e che non sia soltanto un rispolvero di quello che già è in atto. Teoricamente i vantaggi che ne trarremo dovrebbero essere rilevanti: il cliente potrà verificare la provenienza del prodotto e soprattutto la qualità. Anche rispetto alla contraffazione, sono convinto che sia la qualità a fungere da ago della bilancia a favore dell’originale». Pignatelli si augura inoltre che ci sia un ridimensionamento da parte delle case produttrici, e una maggiore meticolosità nello scegliere i prodotti da parte del cliente finale. Un auspicio che dà il la al ragionamento di Enrico Bracalente, amministratore unico di Bag spa, titolare del brand di calzature NeroGiardini, che considera il consumatore il fulcro del sistema moda italiano. Anche per NeroGiardini il problema della lavorazione “prevalentemente” realizzata entro i confini nazionali non è mai esistito. Solo le fasi di taglio e orlatura, e soltanto per una parte della produzione giornaliera, il 60% circa, avvengono all’estero, in Serbia, Romania e Tunisia. Si parla di circa 12-13 mila paia di scarpe su 18 mila realizzate quotidianamente. «In Italia è difficile trovare maestranze per queste fasi produttive», spiega Bracalente. «Ma non possiamo continuare a delocalizzare e chiudere aziende, perché in questo modo impoveriamo il Paese e il potere d’acquisto dei consumatori. Anche questo per me è tutela del made in Italy. È fondamentale continuare a distribuire la ricchezza alle classi medie perché possano spendere e a far ripartire l’economia. Del resto», conclude, «sono convinto che i consumatori accoglieranno molto bene questa legge. Posso portare l’esempio di NeroGiardini: noi negli anni siamo riusciti a trasmettere l’idea che il nostro brand è sinonimo di made in Italy. Merito anche del tricolore, che applichiamo a molti dei nostri modelli. Ebbene, quando i clienti non lo vedono sulle scarpe, perché magari per motivi tecnici non siamo riusciti ad apporlo, ci telefonano per sapere se il prodotto è taroccato, se per caso è realizzato all’estero e così via. Ecco perché ho chiesto ai miei tecnici uno sforzo ulteriore per riuscire ad applicare il tricolore italiano su ciascuno dei modelli».