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Agricoltori e industriali ai ferri corti per quelle che vanno ormai ribattezzate come “le arance della discordia”. A dividere i due comparti è infatti l’articolo 17 della legge comunitaria, approvato dal Parlamento, con il quale si innalza dal 12% al 20% la quantità massima di succo presente nelle aranciate.
Una disposizione che, almeno sulla carta, nasce per promuovere gli agricoltori e i produttori nazionali di agrumi. «E’ stata sconfitta la lobby delle aranciate senza arance che pretendeva di continuare a vendere acqua come fosse succo», commenta il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo, «grazie alla nuova norma 200 milioni di chili di arance all'anno in più saranno “bevuti” dai 23 milioni di italiani che consumano bibite gassate».
AUTOGOL. Peccato che, per una Coldiretti che gioisce, ci sia un intero comparto di produttori di bibite analcoliche che non esita a definire come «autolesionista» la norma. «C’è da riflettere su uno Stato che impone una ricetta in maniera arbitraria e vieta la produzione in Italia di arance apprezzate da decenni, senza alcuna evidenza scientifica o motivi di tutela della salute dei consumatori», spiega Aurelio Ceresoli, presidente di Assobibe, associazione di Confindustria dei produttori di bevande analcoliche.
Il timore maggiore è la delocalizzazione, tanto più che la nuova norma sul 20% di frutta varrebbe solo per chi produce in Italia. Per le bibite realizzate all’estero, vige ancora il vecchio limite massimo del 12%.
Da qui, il rischio che molte aziende decidano di rivolgersi a produttori stranieri, i cui prezzi posso peraltro rivelarsi più abbordabili. Lo ribadisce anche il presidente di Federalimentare, Filippo Ferrua: «E’ dannoso introdurre vincoli e divieti circoscritti solo a chi produce in Italia. Così si favoriscono gli stranieri, si penalizza la competitività italiana, si mettono a rischio migliaia di posti di lavoro fra diretti e indotto».