
Un certo modo di “fare azienda”, basato sull’egoismo del singolo, non solo non piace più, ma si sta dimostrando insostenibile anche dal punto di vista economico.
Occorre cambiare approccio e puntare su un’idea di imprenditoria che colloca la legittima ricerca del profitto in un contesto di rispetto del territorio, dei dipendenti e, naturalmente, dei clienti.
Proprio da questi presupposti è nato il sodalizio di Francesco Bianco con Graziano Scaglia e la moglie di quest’ultimo, Paola Pellichero, con i quali dal 2010 condivide l’avventura di M** Bun, lo slow fast food che trova la propria cifra distintiva nella “piemontesità”.
A partire dal nome attinto dal dialetto locale, dove Mac Bun sta per “molto buono”. L’assonanza provocò la diffida della nota multinazionale americana e convinse i tre soci a modificarlo inserendo i due asterischi.
Sono piemontesi le carni, che provengono tutte dall’azienda agricola Scaglia, gestita da Graziano con i due fratelli, che da ormai diversi anni opera in una logica di filiera completa – dalla coltivazione del mangime per gli animali che vengono allevati, fino al macello e anche alla vendita delle carni – ma anche il pane, i formaggi e la birra che vengono serviti nelle tre agrihamburgherie situate una a Rivoli, città dove il progetto ha debuttato, e due a Torino.
La community
Perché avete deciso di utilizzare lo slang piemontese?
Nella nostra concezione mangiare non vuol dire soltanto nutrirsi, ma anche spaziare con la mente. Da una parte, cerchiamo di rassicurare la clientela, in gran parte composta da famiglie con figli, sui contenuti nutrizionali e, dall’altra, di introdurre una nota di leggerezza, perché alla fine stiamo pur parlando di un panino e non di andare sulla luna!
Proponete un nuovo concept, lo slow fast food. Quali sono le sue peculiarità?
Abbiamo cercato di sposare la preparazione veloce e la possibilità di ordinare in maniera semplice al bancone e senza servizio, che sono i plus del fast food, con alcuni dei concetti cardine dello slow food, dal rispetto della filiera corta – e quando possibile anche del km 0, visto che ci sono prodotti, come ad esempio le acciughe, che sono irreperibili nelle vicinanze di Torino – fino all’utilizzo esclusivo di prodotti freschi e di stagione e all’attenzione per i contenuti nutrizionali dei piatti in menù. Soprattutto, dalla filosofia che ispirò Carlo Petrini, fondatore dell’associazione Slow Food, abbiamo mutuato l’idea di un modello di business attento alla natura e alle persone. Il che significa, sostanzialmente, rispettare l’ambiente e il territorio – nei nostri locali utilizziamo esclusivamente stoviglie biodegradabili e compostabili – ma anche i fornitori, evitando di imporre loro condizioni capestro, e i dipendenti. I nostri ragazzi, che oggi sono circa 80, sono regolarmente coinvolti in attività di formazione volte a garantire loro, anche attraverso visite periodiche ai nostri fornitori, una profonda conoscenza dei processi da cui nascono i prodotti che servono, in modo che possano identificarsi con il nostro progetto e trasferirne i valori alla clientela. Non solo, partecipano anche a tutte le attività lanciate da M** Bun in questi anni, dai social alla radio.
Se non sbaglio, fu proprio una di loro a proporre MoleCola, come nome per la vostra alternativa alla Coca-Cola…
Come è nostra abitudine quando abbiamo una novità, anche in quel caso abbiamo coinvolto tutti i nostri collaboratori in un brainstorming per tirar fuori l’idea vincente. La proposta di una di loro ci parve convincente e fu così che scegliemmo di chiamare in questo modo la bibita alternativa alla Coca-Cola che, dopo una lunga e infruttuosa ricerca di mercato, ci eravamo convinti a produrre direttamente.
Con quali riscontri?
Dopo circa un anno e mezzo che la proponevamo nei nostri locali, ci siamo resi conto di avere in mano un prodotto adatto a essere distribuito sul mercato. Abbiamo così creato una società ad hoc, composta dagli stessi soci di M** Bun, e da inizio anno abbiamo cominciato a proporre la nostra bibita gassata al mondo dell’Horeca, ma anche alla grande distribuzione. Abbiamo già concluso accordi con varie insegne, tra cui la Coop. Anche in questo caso ci atteniamo alla nostra filosofia basata sul controllo del prodotto in tutte le fasi produttive. Stiamo, infatti, trattando per riuscire a importare direttamente la noce di cola dalla Sierra Leone. Un’opzione praticabile perché l’azienda alla quale ci siamo affidati per la produzione, la Giotti Beverage, ha uno specifico know how nell’estrazione di aromi.
È vero che circa il 30% dei ricavi viene devoluto alla onlus Sos Villaggio dei Bambini?
Non solo lo confermo, ma le dico fin d’ora che, anche se probabilmente nel tempo cambieremo partner, MoleCola continuerà a sostenere realtà impegnate nel sociale. Corrisponde alla nostra idea di responsabilità sociale dell’azienda ed è una motivazione in più per il consumatore insieme all’italianità del prodotto, al gusto e all’affezione per il brand, che stiamo cercando di promuovere con iniziative di vario genere.