In Italia si combatte la ricchezza
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Si fa sempre più insistente sui giornali, nei salotti e nelle aziende del nostro Paese il refrain che in Italia si combatta più la ricchezza che la povertà. Affermazione curiosa – che peraltro anche noi abbiamo (nel nostro piccolo) condiviso negli anni in questo spazio –, e tutt’altro che provocatoria. Il perché è presto detto, e lo facciamo partendo dalla stringente attualità. Nella recente legge di Stabilità, per esempio, il punto di vista delle aziende in materia di lavoro, fiscalità e sviluppo non solo è stato del tutto disatteso, ma risulta addirittura non pervenuto. Nel senso che i due fronti della coalizione di governo – M5s in primis e Pd in secundis – si sono guardati bene dal rischio di essere associati a qualsivoglia richiesta, riflessione e istanza del mondo imprenditoriale. Sia mai? Con un elettorato che si è ingrossato a forza di 80 euro in busta paga, reddito di cittadinanza e quota 100, come pensare di ascoltare le valutazioni di chi il lavoro nei fatti lo crea? Eppure, è così.
Per intenderci, va bene aiutare chi è in difficoltà, ma lo è altrettanto sostenere chi creando ricchezza (cioè fatturati e, quindi, profitti) dà lavoro; lavoro che si traduce non solo in stipendi ma anche in dignità. Il cui valore in sé, a mio modo di vedere, non è né quantificabile né monetizzabile. La verità è che da noi fa ribrezzo proporre l’equazione: aziende floride, Paese ricco. Perché gli imprenditori sono ancora visti, ahimè!, come i padroni delle ferriere. Eppure, anche quando si avesse in odio la categoria per qualche più o meno ragionevole ragione, non aver tenuto da conto il benessere delle aziende sane è un lusso che stiamo pagando molto caro.
Secondo infatti un’inchiesta del Corriere della Sera a firma di Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro, ammonterebbe a 105,7 miliardi di euro il mancato incasso del fisco relativamente alle società fallite o in amministrazione straordinaria: su 161,7 miliardi di euro di ammissione al passivo, il fisco avrebbe recuperato solo 2,6 miliardi, pari all’1,6%. Un vero e proprio bagno di sangue, che ricade sulle coscienze non solo di quei furbi “prenditori” che – intrufolandosi tra le maglie della burocrazia – riescono a farla franca a spese di tutti, ma anche su chi continua a rendere sempre più complicate e onerose le disposizioni di legge in materia di impresa e di lavoro.
Eppure, a dispetto e malgrado tutti e tutto, esiste una ricchezza che è figlia della tenacia e dell’estro italiano, della creatività e del rischio così come della voglia di farcela, per creare benessere per sé e per il proprio Paese. Mi chiedo per quale stupido tafazzismo si continui ancora a guardarla con sospetto.
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