La meritocrazia è muta
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Curricula muti? Un successone. È bastato pubblicare sul sito e sulla pagina Facebook di Business People
la notizia sull’iniziativa di Deloitte che ha deciso di adottare nella selezione del personale dei curricula in cui fosse debitamente occultato il nome dell’università di provenienza del candidato, per registrare a stretto giro di click diverse centinaia di like.
Finalmente, dicono in tanti, così si privilegia la meritocrazia al posto di chi, potendo contare su genitori danarosi, può permettersi di frequentare prestigiosi atenei privati e solo per questo sopravanzare altri candidati con studi meno altisonanti. A chi fosse sfuggita la novità deve sapere, infatti, che la multinazionale di consulenze e revisioni Deloitte, un “mostro” attivo in oltre 150 Paesi che viaggia intorno ai 35 miliardi di dollari di ricavi annui, ha deciso che d’ora in poi non terrà conto nelle selezioni in Uk (a Londra ha sede il quartier generale europeo, a New York quello Usa) del prestigio o meno delle scuole frequentate dai candidati, preferendo valorizzare e puntare allo stesso tempo sulle loro qualità personali, sul carattere, sull’intraprendenza, sul desiderio di riuscire. Il tutto per poter ottenere gruppi di lavoro disomogenei, i cui singoli elementi siano capaci di dare contributi diversi, arricchendo di fatto i punti di vista di cui tener conto. Per questo i curricula, alla voce formazione, verranno in parte “silenziati” in relazione alle scuole di provenienza.
La decisione di Deloitte (e altre multinazionali) indica che tanti anni di crisi hanno decretato la preminenza della sostanza sulla forma
La parola d’ordine diventa quindi “meritocrazia”, si sceglie un candidato per quello che è non per quello che il suo curriculum rappresenta. Si sceglie per la “fame” che ha di realizzare i suoi progetti e i suoi sogni, trascinando con la sua energia e la sua voglia di fare anche gli obiettivi dell’azienda in cui si trova a lavorare. E questa voglia di fare, senza con questo voler essere classisti o superficiali, è ravvisabile soprattutto in chi magari è riuscito a spiccare in un contesto in cui le difficoltà sociali e didattiche sono state più complicate. Una sorta, volendola tirare per i capelli, di selezione darwiniana della specie applicata alle professionalità. Ciò non vuol dire ovviamente che gli studi fatti presso centri di formazione più o meno di eccellenza, non abbiano un peso, solo che da soli non bastano a fare di chi li frequenta il meglio di ciò che serve a un’azienda. Significa che la varietà di prospettive e di opinioni non è un ostacolo, ma un incentivo a individuare magari vie d’uscita innovative ai problemi, oltre che a sviluppare nuove idee di business. Quale sia il metodo migliore per selezionare i talenti è l’eterno dilemma delle aziende, perché – detta in soldoni – non ne esiste uno che vada bene per tutte, ma – senza voler esagerare – ogni impresa ne esigerebbe uno su misura, che varia e si evolve col mutare delle sue esigenze.
La decisione (peraltro non solitaria, visto che anche altre multinazionali si sono mosse di recente in questa direzione) di Deloitte indica però che tanti anni di crisi hanno decretato la preminenza della sostanza sulla forma, sentenziando come non sia più tempo di manager e collaboratori semplicemente “formati”, ma di individui che abbiano il carattere e la sensibilità per saper gestire prima di tutto se stessi e poi gli altri.
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