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Lavoro

Poletti: “Al lavoro troppo tardi. Laurearsi prima, anche con voti bassi”

Scoppia la polemica sulle parole del ministro del Lavoro, che invita i ragazzi italiani a non pensare troppo al punteggio della laurea, ma a non “buttare via del tempo, che vale più di mezzo punto”. Ma tra i ragazzi c’è chi lo difende

Una laurea con 110 e lode a 28 anni (se non a 30-35) non serve a nulla, meglio prendere un 97 a 21; risparmiare tempo e fare esperienza nel mondo del lavoro. È questo il senso dell’intervento del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che dal Salone Job & Orienta della Fiera di Verona ha cercato di far capire ai ragazzi italiani che il mercato del lavoro non aspetta chi si laurea a 30 anni. La sua affermazione – che per l’Ansa avrebbe ricordato quel “choosy” (schizzinosi) con cui l’ex ministro Elsa Fornero aveva etichettato i giovani del nostro Paese – ha scatenato una serie di reazione polemiche sui social (in fondo all’articolo il dibattito su Twitter con hashtag #Poletti), ma c’è chi ha difeso il ministro: “È di moda insultare i potenti di turno, e spesso se lo meritano, ma penso che #Poletti abbia detto una cosa oggettivamente vera”.

IL SENSO DEL POLETTI-PENSIERO. Polemiche a parte, perché il ministro del Lavoro ha spinto i ragazzi a laurearsi il prima possibile, sottolineando che “un 110 e lode a 28 anni non serva a un fico”? Perché così, ha aggiunto Poletti, “un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare. In Italia – ha aggiunto – abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più – ha insistito il ministro – si butta via del tempo che vale molto, molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, non serve a niente. Il voto è importante solo perché fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo; bisogna che rovesciamo radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura”.

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