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Lavoro

Perché i giovanissimi non sognano più le grandi aziende

La Generazione Z è il motore del cambiamento e ha scelto il percorso universitario pensando alla carriera. Dove? Solo uno su tre punta a una posizione in un grande gruppo

Solo un ragazzo su tre sogna di lavorare in una grande azienda. A dirlo è Stefano Trombetta, Managing Director, Accenture Strategy, Talent & Organization Italia, Europa Centrale e Grecia. La Generazione Z, che sarà «il motore del cambiamento», ha pianificato con cura il proprio percorso universitario pensando agli sbocchi professionali (87%), che appunto solo in un terzo dei casi puntano a un grande gruppo.

GENERAZIONE Z IN FUGA DALLE GRANDI AZIENDE

La Generazione Z, a differenza dei Millennials sognatori, si distingue per pragmatismo. Molto focalizzati sulle tecnologie – il 70% ritiene che l’intelligenza artificiale sarà parte della propria professione – i giovanissimi sono anche aperti alla flessibilità: l’82% è disposto a trasferirsi per un’offerta di lavoro. A questa flessibilità fa fronte però una elevata aspettativa: i nuovi laureati cercano un’esperienza professionale coinvolgente. L’83% dei neolaureati italiani ha già lavorato durante gli studi e ora aspetta un progetto di formazione o training (97%). Il 44% si aspetta un percorso di formazione strutturata organizzata dell’azienda; il 54% pensa che la propria crescita deriverà da un apprendimento sul campo (vs il 67% negli USA) o da un’interazione continua con uno o più “coach” all’interno dell’azienda (40% in Italia).

«Ben il 79% oggi cerca un’occupazione tramite una app. Anche se oggi ancora molte realtà fanno selezione attraverso processi tradizionali», spiega il n.1 di Accenture. «Per proporsi in modo adeguato le società dovrebbero proporre dei programmi di training che sappiano stimolare i candidati più talentuosi. I giovani di oggi sono estremamente preparati sulle innovazioni e hanno competenze digitali da trasmettere all’intero team».

Ma con quali aspettative i giovanissimi si avvicinano al mondo del lavoro? Sperano di poter utilizzare le competenze approfondite nelle aule universitarie, evitando un “sottoimpiego“. Un problema sperimentato concretamente dal 61% dei laureati 2015/2016 in Italia (54% negli Usa).