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Lavoro

I peccati della consulenza

Un’indagine di Astra Ricerche misura lo scarso livello di soddisfazione delle imprese italiane nei servizi di consulting

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Costano molto e servono a poco: sui consulenti si scatena l’ira delle aziende. Sarà l’effetto della crisi che sta mettendo tutti a dura prova, fatto sta che otto imprese su dieci si dicono insoddisfatte dell’assistenza ricevuta dai professionisti esterni: il prezzo non vale il risultato. È quanto emerge da un’indagine condotta da Astra Ricerche su un campione di 400 realtà medio grandi (più di 100 dipendenti): il 74% di chi ha fatto ricorso ai grandi nomi della consulenza lamenta scarsa efficacia e cattivo rapporto costi benefici. Insomma: il vecchio sistema non funziona più e si è dimostrato incapace di aiutare le imprese, soprattutto in periodo di crisi. Tutto da buttare? No, ricorrere all’outsourcing può far bene al business, e lo dicono le aziende stesse, ma a patto che i manager esterni garantiscano value for money, prezzi più sostenibili e misurabilità delle performance. Tradotto: cari consulenti, verrete pagati in proporzione ai risultati. Ma non solo: basta con le presentazioni da mille pagine, serve un aiuto concreto, dicono gli intervistati, soprattutto nella fase di passaggio dalla teoria (leggi: slides) alla pratica. Ma la lista delle lamentele è lunga. «Sono dati da prendere con cautela» tranquillizza Enrico Finzi, sociologo e presidente di Astra Ricerche «perchè si tratta di un campione ristretto e intervistato in un momento molto difficile. Ma non possiamo ignorare la delusione del mondo imprenditoriale nei confronti dell’attuale sistema di consulting. Un’insoddisfazione espressa anche con toni duri, risentiti e ostili».

Meglio soli che mal consigliati?

Sono tre le accuse rivolte alle società di consulenza dalle aziende intervistate: i “consiglieri” non sono capaci di dare buoni suggerimenti e lo fanno a prezzi elevati, spesso incorrendo in evidenti conflitti di interesse. «Consulenze fotocopia o vere e proprie bufale: i delusi non usano mezzi termini per descrivere il servizio ricevuto» commenta Finzi «e arrivano a parlare di furti e rapine». Un’insoddisfazione che sfocia in vera e propria accusa: basta leggere alcune risposte per capire che il clima è davvero caldo. Quando si parla di change management, per esempio, emerge una profonda delusione: è un insuccesso. Le riorganizzazioni aziendali guidate dai consulenti, infatti, «non funzionano dopo la fine dell’intervento» e, soprattutto, c’è il sospetto che nel valzer delle poltrone vengano privilegiati quei manager che poi gestiranno gli incarichi delle società di consulenza. «Il conflitto d’interesse emerge quando risultano favoriti i dirigenti incaricati di assegnare le commesse» spiega Finzi «o quando il consulente indirizza l’impresa verso mercati nei quali il consulente stesso è un player. Insomma, l’arbitro dovrebbe sempre essere indipendente e non prendere parte al gioco. Invece con l’attuale sistema si fanno sempre entrare in campo i parenti».

È scoppiata la bolla

«Ho l’impressione che sia scoppiata la bolla: quella finanziaria è solo una, ora esploderanno quella della consulenza, del marketing e del branding». Un cataclisma, nelle parole del sociologo Finzi, che non risparmierà nessuno, un «tracollo di credibilità che ha dimensioni estese». Ma cosa sta succedendo? Il fatto è che la crisi economica ha cambiato le priorità di aziende e manager e di conseguenza sono andati in crisi i modelli di sviluppo e di business delle società di consulenza. Risultato? La distanza tra il mondo aziendale e quello della consulenza sta aumentando: tutto quello che finora funzionava non vale più. Unica consolazione: nel generale clima di delusione, le aziende meno insoddisfatte sono quelle più piccole, perchè «qui il controllo sui consulenti è più stretto» commenta Finzi «e il management tende a delegare meno, riuscendo così a tenere tutto sotto controllo e a ottenere il meglio dall’outsourcing».

La consulenza ai tempi della crisi

Anche in tempo di recessione, però, le aziende non dicono addio alla consulenza. Al contrario ne riconoscono l’utilità, ma chiedono di poter misurare con precisione le performance degli interventi esterni. La conferma viene anche dagli head hunter. «Non sorprende che le aziende, avendo necessità di essere flessibili per far fronte alle pressioni del mercato» dice William Griffini, ceo di Carter&Benson, «si stiano orientando verso l’esternalizzazione, anche di competenze specifiche e di valenza strategica, affidando a manager esterni il compito di accompagnarli attraverso questa fase di forte trasformazione dei modelli operativi». Sono cambiate le esigenze, anche a causa della spasmodica attenzione ai costi. E così è entrato in crisi l’approccio classico delle società di consulenza. Cos’altro non va nel sistema attuale? Per esempio non c’è coinvolgimento del management: il progetto di intervento si sviluppa ma l’azienda non cresce allo stesso passo. Sotto accusa, a sentire le imprese intervistate, c’è anche la permanenza del professionista in azienda: è troppo breve, il consulente se ne va quando ci sarebbe più bisogno di lui. E il management interno resta solo col difficile compito di realizzare quanto emerso dal lavoro di indagine. Insomma: troppe slide lasciate sulla scrivania dell’amministratore, mentre invece servirebbe aiuto nel passaggio dalla teoria alla pratica. E anche in presenza di consulenze perfette, e ce ne sono, il problema è che l’azienda, lasciata da sola, non sa come realizzare il progetto e neppure come tradurre il lavoro di consulting in azioni concrete di business. La situazione non è delle più semplici. Da un lato, infatti, reperire risorse e competenze esterne resta strategico per la crescita delle piccole o medie imprese, e sono loro le prime a dirlo, ma dall’altro il vecchio sistema viene accusato di non funzionare più. Cosa chiedono allora le aziende? «Meno teoria» risponde il sociologo Finzi «più coinvolgimento del management e soprattutto condivisione dei costi». Si tratta di nuovo scenario, già battezzato Lower profit economy che dovrà essere governato da tre principi: value for money, strategie di pricing più sostenibili e misurabilità delle performance step by step. Ovvero: incentivi se la consulenza funziona, penali se fallisce. Più in generale, si tratterebbe di legare il compenso della società esterna al successo del suo lavoro: più grandi i risultati, più ghiotta la parcella. Con quali regole? «Per esempio correlando parte dell’onorario professionale al raggiungimento dei risultati conseguiti» suggerisce Andrea Agostini, un passato in Procter&Gamble, oggi alla guida della società di management eBit, che ha commissionato la ricerca ad Astra Ricerche, assieme a Gianluca Borsotti e Paolo Santini «con differenti forme di collaborazione che spaziano dal management by objective alle royalty sul giro di affari incrementale, oppure in percentuale sul fatturato conseguito. Ma si arriva anche a forme di partecipazione societaria, soprattutto nel caso di realtà neonate». Funzionerà? «I primi risultati, con aziende come Fornarina o Matrix, sono incoraggianti» secondo Agostini, a conferma del fatto che legare la remunerazione ai risultati è sempre un buon incentivo.

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Enrico Finzi, sociologo e presidente di Astra Ricerche, da lui fondata nel 1983, e di Tp, associazione di professionisti della comunicazione. Si occupa da più di 25 anni di scenari predittivi e analisi di mercato