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Quel che resta della crisi

Anche il settore televisivo è in balia degli sbalzi della finanza globale, malgrado le opportunità offerte dalla tecnologia. Cosa è successo e cosa sta per succedere a reti pubbliche e private del Vecchio Continente

L’incertezza economica del mercato europeo si riflette anche nelle sue televisioni. Il mito dell’anticiclicità del sistema televisivo (con la crisi, la gente esce di meno e guarda più tv) si è sgretolato: gli effetti della recessione (o stagnazione, a seconda dell’umore degli analisti) sono arrivati, solo un po’ più in ritardo. Certo, il settore entertainment&media è destinato a risalire: PricewaterhouseCoopers ipotizza una spesa di 1,9 mila miliardi di dollari nel 2015, ma mai come in questo momento le previsioni si dimostrano labili, in balia delle oscillazioni delle Borse globali. Per l’audiovisivo europeo, sono tre i campi su cui affrontare la crisi: pubblicità, digitalizzazione e copyright, tutti accompagnati dalle incertezze e opportunità offerte dalla tecnologia. Più piattaforme sulle quali offrire i propri programmi implicano anche nuovi attori in campo (per esempio, Apple o Google) e difficoltà nel difendere i ricavi derivanti dallo sfruttamento dei contenuti (un modello su tutti, YouTube). Se però l’Europa, come recita il piano Europa 2020, punta a diventare un’economia intelligente e sostenibile, anche la televisione dovrà rivedere le proprie strategie. Tutti sono coinvolti: emittenti pubbliche, commerciali e produttori.

UN MERCATO IN CERCA DI OPPORTUNITÀ Dopo l’annus horribilis del 2009, i servizi pubblici europei cominciano a tirare un respiro di sollievo: le entrate complessive dei 75 membri di Ebu (l’associazione dei broadcaster pubblici europei, di cui fa parte anche Rai) sono state pari a 35,3mld di euro nel 2010, +4,3% rispetto all’anno precedente. Attenzione: «Il dato non indica una crescita, bensì quanto fosse critica la situazione nel 2009. Se teniamo conto dell’inflazione, il risultato è inferiore ai livelli del 2005, prima della crisi», spiega Alex Shulzycki, head of Ebu Research. Pensando alle vicende Rai, si può facilmente capire quanto la tv pubblica sia specchio del proprio Paese: più uno Stato è stato prostrato dalla crisi economica, più essa ne ha risentito. Un esempio? Il Portogallo (tra i più colpiti, insieme a Grecia, Spagna, Irlanda e Italia) quest’anno venderà una delle due reti di Stato. Ed è solo una delle manovre allo studio. Il settore ha bisogno di risorse per assolvere al suo compito di offerta di contenuti e informazione e il canone (il 60% del reddito totale dei membri di Ebu nel 2010) forse non può più essere l’unica risorsa disponibile. Eliminata la pubblicità in alcuni casi (come Francia e Spagna), si fanno strada nuovi modelli di finanziamento statale, tramite fondi pubblici (rischiosi, in un momento di crisi delle casse dello Stato) o tasse su tlc o tv commerciali. A proposito di queste ultime: trasformare in opportunità di business le possibilità offerte dall’evoluzione tecnologica è ora la nuova mission. Le reti commerciali si stanno evolvendo in «distributori di contenuti multimediali», commenta infatti Philippe Delusinne, presidente di Act (Associazione delle tv commerciali). Con la crescita della visione non lineare, tv mobile e social network, quindi, occorre sviluppare modelli di business profittevoli per servizi finanziati dalla pubblicità, pay tv o on demand. Cosa accade alla luce di questi nuovi assetti a chi i contenuti li deve fornire, ovvero i produttori indipendenti? «L’industria creativa e culturale è uno dei settori con occupazione in aumento e pertanto è un driver di crescita economica all’interno del vecchio Continente. Oggi vale il 3% del Gdp (prodotto interno lordo) dell’Ue, con una media di 6 milioni di impiegati in Europa», commenta Werner Müller, presidente di Cepi (Coordinamento europeo dei produttori indipendenti). Per realizzare fiction, serie o programmi di intrattenimento che occupano i palinsesti nazionali e internazionali, poi, servono strumenti che attirino capitali e investimenti privati (sempre meno le produzioni finanziate al 100% dal broadcaster), come gli incentivi alla produzione o le coproduzioni. Le piccole/medie imprese indipendenti (ulteriore fattore di incertezza è la concentrazione dei grandi poli produttivi, come la FremantleMedia di X Factor, che inglobano i player più piccoli) dipendono dalla solidità del servizio pubblico, suo primo cliente, anche in virtù degli investimenti imposti ai singoli Stati dall’Ue (cui si aggiunge il fondo EuroMedia, destinato allo sviluppo del settore creativo e culturale del vecchio Continente): un suo indebolimento comporterebbe un danno a tutto il mercato, producendo un’offerta limitata e poco innovativa, al contrario del grande competitor statunitense. Gli accordi stilati con i broadcaster pubblici nazionali sono importanti per l’economia e lo sviluppo della produzione indipendente. Opportuno sarebbe risolvere le anomalie (e questo spetta a Bruxelles) che ancora vigono nel settore audiovisivo tra i diversi Paesi e che rendono più difficile la cooperazione e la sinergia tra i vari produttori.

Werner Müller Presidente Coordinamento europeo produttori indipendenti L’industria creativa e culturale è un driver di crescita economica per il vecchio continente

Alberto Dal Sasso Ais Business Director Nielsen Italia Le previsioni dei prossimi tre anni per l’Europa occidentale indicano un incremento del mercato del 2% circa

Alex Shulzycki Head of Ebu Research Le entrate del 2010 (35,3 miliardi di euro) segnano un risultato inferiore al 2005, prima della crisi

Philippe Delusine Presidente associazione tv commerciali Le emittenti commerciali si stanno evolvendo verso il ruolo di distributori di contenuti multimediali

RIPRESA DIFFICILE

OLTRE LA PUBBLICITÀ, LA RETESul fronte pubblicitario la Tv può stare, in parte, tranquilla essendo sempre la componente privilegiata nel marketing mix delle aziende (44% degli investimenti pubblicitari in Europa, in Italia al 53%). «Le previsioni per i prossimi tre anni», riflette Alberto Dal Sasso, Ais Business Director di Nielsen Italia, «sono sicuramente conservative per l’Europa Ovest: i primi numeri (includendo il traino delle Olimpiadi e gli Europei di calcio) danno una crescita del mercato intorno al numero “pivot” del 2% circa». Secondo i dati di Nielsen Italia, negli ultimi cinque anni il tasso di crescita medio del settore tv è stato pari a zero. I mercati appaiono differenziati, con un maggiore decremento in Spagna, Francia e Uk e una crescita a doppia cifra in Scandinavia ed Estonia. Si affiancano nuovi media: la raccolta adv su internet è stata l’unica a registrare una crescita lo scorso anno (Cagr a +18,33%). Il Web ha un ruolo sempre più importante: per il settore audiovisivo la parola magica è connected Tv. E qui si scontrano le diverse posizioni delle televisioni pubbliche e commerciali. Da una parte, infatti, il servizio pubblico punta a rendere disponibili i propri contenuti su tutte le piattaforme disponibili, Internet, smartphone etc.. Tant’è che in alcuni Paesi il canone, da tassa sull’apparecchio tivù, è stato ridefinito con espressioni tecnologicamente neutrali, che comprendano i diversi device. Per la Tv commerciale, nuove piattaforme possono tradursi in fonti di ricavo solo se i contenuti vengono adeguatamente protetti. Un esempio italiano è la politica di Mediaset, i cui contenuti video sono disponibili solo sui propri siti e sono costantemente rimossi – a differenza di Rai o La7 – da YouTube. È l’incerto terreno del diritto d’autore, sulla cui tutela nessuno ha ancora trovato una soluzione che soddisfi tutte le parti in causa. In soldoni, broadcaster e produttori chiedono che chi trae profitto dai contenuti partecipi anche al loro finanziamento. Il confronto con le istituzioni europee diventa allora fondamentale per trovare nuove forme di sfruttamento dei diritti, con una enfasi speciale sulla libertà contrattuale, in modo da promuovere un mercato competitivo, in grado di confrontarsi anche con la “potenza di fuoco” dei prodotti Usa. Basterà questo per salvare l’Europa?