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Lavoro

Manager, da quando la specializzazione è un limite?

Sempre più spesso i dirigenti che vantano una lunga carriera in un settore vorrebbero mettere a disposizione il loro background in mercati diversi, se non lontani. Eppure, da parte di head hunter e aziende, si registrano spesso incomprensibili chiusure. È il trionfo del pregiudizio sulla ragione e l’innovazione

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Se Bill Gates si mettesse a vendere hamburger avrebbe successo? Chissà, ma intanto lui ci sta provando con Impossible Food, la start up dei panini vegetariani. Il punto è questo: se sei bravo, riesci in qualunque campo. Vale per tutte le professioni e a qualunque livello: competenze specifiche e know how conquistati nel tempo sono un patrimonio prezioso da spendere sul mercato del lavoro anche in settori diametralmente opposti a quelli di provenienza. Vero, in teoria. Perché nei fatti le aziende italiane che assumono tendono molto spesso a essere iperconservatrici: solo manager dello stesso settore e con le skill strettamente necessarie. Ma non è un limite? Chi arriva da un altro settore, infatti, si porta dietro punti di vista, idee e pratiche innovative che potrebbero funzionare bene anche nella nuova azienda. Chiudendogli le porte a priori va sprecata una ricchezza di conoscenze, voglia di fare e possibile innovazione. E così, sempre più spesso, un manager con vent’anni di esperienza in un determinato campo non può aspirare a mettersi in gioco in un altro (soprattutto se non limitrofo), perché la sua competenza si rivela un limite e non un potenziale volano al cambiamento.

AVERE CORAGGIO PAGA«Nel mercato del lavoro stiamo riscontrando una sorta di effetto fotocopia», conferma Paolo Iacci, presidente di Eca Italia e vicepresidente nazionale dell’associazione italiana direttori del personale (Aidp), «perché le aziende chiedono profili tutti uguali: candidati sotto i cinquant’anni, provenienti dal medesimo settore merceologico, non disoccupati – come se trovarsi senza lavoro di questi tempi fosse una colpa grave – e soprattutto che abbiano ricoperto la stessa posizione come ultima esperienza. È il trionfo del pregiudizio sulla ragione. La motivazione è molto semplice. In questo periodo di grande incertezza nessuno ha voglia di prendersi alcuna responsabilità. Nessuno vuole sentirsi potenzialmente attaccabile. Così meglio ingaggiare chi viene da un’azienda prestigiosa, anziché puntare su un candidato palesemente più qualificato. Meglio assumere una persona più giovane che non un cinquantenne, anche se quest’ultimo possiede un’esperienza più articolata. Meglio scegliere una persona dallo stesso settore, anche se la posizione ricercata non richiede una specifica competenza merceologica».

ORA CHE C’È BISOGNO DI SOLUZIONI

INEDITE PER CAVALCARE LA RIPRESA,

LA PAURA FA PREVALERE IL CONFORMISMO

Risultato: proprio nel momento in cui le imprese, per cavalcare la ripresa, hanno bisogno di talenti freschi per trovare soluzioni innovative che possano fare la differenza sul mercato, la paura di correre il rischio fa prevalere il conformismo. E allora addio vantaggio competitivo. Eppure il fatto stesso di avere davanti un candidato che, dopo tanti anni di esperienza, cerca nuove motivazioni e abbia voglia di rimettersi in gioco in nuovi ambiti dovrebbe essere una prova concreta di grande forza di volontà, innovazione, pensiero laterale e, in sintesi, talento. Perché il selezionatore non se ne accorge?«La risposta», racconta Francesco Tamagni, General Manager di Intermedia Selection, società di ricerca e selezione di professional e middle management, «emerge dai confronti che facciamo giornalmente con le aziende: si preferisce andare sull’usato sicuro piuttosto che sul plug and play. Detto altrimenti, la forte pressione sui risultati che le imprese devono raggiungere nel breve periodo induce a considerare rischioso portarsi a bordo candidature che non conoscono il settore o la funzione così profondamente. E allora si resta rigidi puntando su candidature già pronte e preparate, invece di aprirsi a nuove scenari, idee e innovazioni che altri candidati potrebbero portare».E pensare che all’estero non fanno così. «In Gran Bretagna e negli Stati Uniti», conferma Tamagni, «mutare ambiente rappresenta la norma, merito di un mercato molto più effervescente e di una cultura molto più mobile».

I CONSIGLI DEGLI HEAD HUNTER

UNA RIVOLUZIONE DI MENTALITÀEppure non tutto è perduto: cercare di cambiare il settore nel quale si opera da qualche decennio non è affatto semplice, ma neppure impossibile. «Un curriculum vitae con quindici o venti anni di esperienza», ragiona Francesca Contardi, Managing Director di Page Personnel, «sottolinea oltre alle conoscenze professionali anche capacità trasversali, cognitive, realizzative, di base e relazionali che valgono per qualsiasi settore e difficilmente vengono ignorate dai responsabili del personale. Sono convinta che la capacità di raggiungere i risultati e gli obiettivi prefissati, la tenuta, la predisposizione ad adattarsi a situazioni nuove e l’interesse a imparare siano fattori determinanti nella scelta di un candidato con esperienza. Tutti aspetti che non sono vincolati al settore di provenienza. Detto questo, spesso si privilegia la provenienza dal settore specifico perché magari se ne conoscono le dinamiche e le difficoltà, e l’inserimento in azienda può essere più veloce».Eppure la cross-fertilization, l’incrocio e l’ibridazione fra competenze richieste e settore di provenienza, ha già dimostrato di funzionare, e molto bene, proprio qui in Italia. «Penso a quello che è successo quando i brand della moda e del lusso, per colmare una carenza nelle funzioni di controllo di gestione, hanno attinto a figure professionali che provenivano da ambienti diversissimi, come l’alimentare, il metalmeccanico e il largo consumo perché avevano maturato grande esperienza nella marginalità di prodotto, nella parte commerciale e nell’analisi dei prezzi, tutte skill all’epoca richieste dalle case di moda», ricorda Carlo Caporale, Senior Director Italy di Wyser, la società internazionale di Gi Group che si occupa di ricerca e selezione di middle e senior management specializzato.

LORO LA PENSANO COSÌ

QUI LE DIFFERENZE CONTANO, IN POSITIVO Giordano Puricelli General Manager Grohe Italia

L’IMPORTANZA DI UN PERCORSO PROFESSIONALE ROBUSTO Danilo Villa Direttore generale Coop Lombardia

SIAMO LA SOMMA DELLE NOSTRE ESPERIENZE Lucio Miranda Presidente ExportUsa

Clicca sulle immagini per leggere l’intervento

A SCUOLA DI CONTAMINAZIONEForse il punto è proprio questo: avere un percorso professionale coerente e solido è il primo vantaggio competitivo, dimostrare di saper lavorare con la stessa professionalità in ambiti diversi è la marcia in più, la prova che sappiamo fare bene il nostro lavoro.«Sono anni che si sentono slogan sempre più audaci sull’avvento dell’economia della conoscenza, o sul passaggio dall’era della variabilità a quella dell’incertezza», è l’analisi dello psicologo del lavoro e delle organizzazioni Stefano Verza, «e dietro a tutti questi concetti c’è un messaggio fondamentale per il mondo del business: questa è un’epoca in cui nulla sarà mai più come prima e non si può prescindere dalla contaminazione tra ambiti disciplinari e dalla trasversalità tra settori produttivi. Invece, quando le aziende si soffermano sulla specializzazione e sulla specificità di competenze e know how, accade quello è sotto gli occhi di tutti specialmente in Italia: scarsa permeabilità e ancor minore capacità di produzione e diffusione d’innovazione. Come dire: solo la sintesi tra skill e settori diversi dà origine a quelle innovazioni radicali di prodotti, processi e modelli organizzativi che aprono nuovi segmenti di mercato».

ALL’ESTERO MUTARE AMBIENTE RAPPRESENTA

LA NORMA, MERITO DI MERCATI PIÙ EFFERVESCENTI

E DI UNA CULTURA PIÙ MOBILE

Certamente si tratta di un cambiamento radicale di cultura e di atteggiamento mentale, ma su questa strada qualcosa si sta muovendo e sono nate molte scuole che insegnano ai manager a liberarsi dal fardello dell’iperspecializzazione. Come? Lasciandosi “contaminare” da altre materie, lontanissime dal curriculum formativo classico. L’ultima nata è 012Factory di Caserta. «Siamo un centro di contaminazione in Italia per l’innovazione delle imprese», racconta a Business People uno dei sette fondatori, l’imprenditore Pietro Nardi, «e al centro del nostro progetto c’è proprio il valore strategico della contaminazione, intesa come l’incontro e lo scambio collettivo di idee, esperienze, know how e mindset differenti. Cosa succede, per esempio, se mettiamo assieme le idee di un manager di una grande azienda iperorizzontale e quelle di un imprenditore locale, iperverticale? E se poi facciamo partecipare alla stessa riunione uno sportivo e un professore di italiano? Se fosse uno scambio di mele ne avrebbero sempre una a testa, ma se il primo ha un’idea ed il secondo ne ha un’altra e se la scambiano, allora ne avranno entrambi due a testa».

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