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Poche parole hanno il potere di dividere e polarizzare il confronto come il termine “globalizzazione”. Il dibattito sui suoi meriti e le sue colpe è come un serial televisivo alla millesima puntata: si è già detto e visto tutto. Eppure... Eppure, quando nessuno si sarebbe più aspettato nessun guizzo dagli sceneggiatori, ecco che arriva il colpo di scena: la globalizzazione è in agonia. Lo scriveva lo scorso gennaio l’Economist , in un pezzo sulla slowbalisation (la globalizzazione senza più propulsione) in cui descriveva la fine dell’età d’oro del commercio globale, il ventennio tra il 1990 e il 2010. A sostegno di questa teoria, il settimanale forniva alcuni dati, come la caduta in picchiata degli investimenti cinesi in Europa e negli Usa, giù del 73% nel 2018 e la riduzione del 20% – nello stesso anno – degli investimenti transfrontalieri delle multinazionali. E poi i dazi statunitensi, il braccio di ferro sui prodotti hi tech, settore che vale da solo il 20% del mercato azionario, il crescente nazionalismo fiscale, per non parlare della questione della privacy e dello spionaggio. Il cahier de doléances del settimanale ultraliberista è lungo e articolato, ma non proprio originale. Le prefiche della globalizzazione, infatti, piangono da un po’ e la stessa parola slowbalisation fu coniata nel 2015 dal trend watcher e conferenziere del Suriname Adjiedi Bakas.
Ma c’è chi non condivide questo pessimismo (o ottimismo, a seconda dei punti di vista). Lo scorso 26 aprile, sul Sole 24 Ore , per esempio, il Ceo di DHL John Pearson scriveva che «la globalizzazione è appena iniziata», aggiungendo di essere molto stupito da quanto poco l’economia fosse davvero globale, visto che «solo il 3% degli individui vive al di fuori dei confini in cui è nato», che solo il 20% della produzione economica mondiale viene avviata all’esportazione, che gli investimenti aziendali mirati a operazioni internazionali sono meno del 10% del totale e che i pacchi spediti sulla rete internazionale sono appena l’1,3% di quelli che viaggiano entro i confini dei vari Paesi. Insomma, ci siamo applicati poco e male. In futuro dovremo globalizzarci di più.
Contribuiscono alla confusione generale anche istituzioni che dovrebbero fornire letture un minimo attendibili. Per esempio, nel 2014 la Bank of England pubblicava un’analisi del fenomeno della deglobalizzazione in ambito finanziario, per essere smentita dalla Bank of International Settlements che, nel 2017, scriveva in un suo report che i flussi finanziari erano ripresi con vigore, fatta eccezione per l’Europa, le cui banche – scottate dalla crisi del 2008 – erano impegnate nella ricostruzione del proprio capital ratio, risultando restie a muovere capitali e, purtroppo per gli europei, a prestarli. La prospettiva della banca centrale inglese era limitata. Similmente, anche il punto di vista dell’Economist non è sbagliato, è solo parziale. Lo è dove, per esempio, scrive che la globalizzazione ha sottratto 1,2 miliardi di persone alla povertà più nera. È vero, ma ha fatto anche dell’altro. In questo, fu più sincero Forbes Usa , quando nel novembre 2016 – notando che gli investimenti diretti esteri delle multinazionali erano diminuiti di 700 miliardi in sette anni e che si assistesse alla più lunga fase di stagnazione degli ultimi 70 anni – scriveva «il sostegno politico al libero scambio e al lavoro a basso costo si sta esaurendo velocemente», aggiungendo che «i salari della classe media e di quella operaia negli Usa, per non parlare dell’Europa, sono stati fermi 20 anni».
Un punto di sintesi, forse, lo si può trovare in un documento di Caixa Bank dello scorso settembre intitolato Globalisation at historic crossroads: deglobalisation o reglobalisation? . Non sarebbe tanto la globalizzazione a essere in discussione, ma le regole che l’hanno plasmata e che l’hanno resa molto diversa dagli altri processi di espansione e integrazione dei mercati cui il mondo ha assistito in precedenza. Tanto diversa che Dani Rodrik la definisce iperglobalizzazione. Rodrik, economista con una carriera a Princeton, oggi ad Harvard, già nel 1997 aveva messo in dubbio la narrativa ufficiale in un libro come Has Globalisation Gone Too Far? . Di recente, è tornato con Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata , in cui prova a spiegare questa particolare fase storica, segnata dagli errori di «una globalizzazione gestita malamente». In particolare, la nostra società si troverebbe di fronte a ciò che lo studioso definisce il «trilemma dell’integrazione»: «Non si può avere contemporaneamente iperglobalizzazione, democrazia e sovranità nazionale. Se ne possono avere al massimo due su tre».
Un’analisi, la sua, che conferma quella dell’indiano Prem Shankar Jha, autore de Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni , uscito 13 anni fa eppure più attuale che mai nella sua lettura dell’evoluzione del capitalismo. Quest’ultimo, secondo lo studioso indiano, tenderebbe a esondare, a rompere le barriere del territorio che lo ha fatto prosperare, cercando un nuovo contenitore più grande.
A un ciclo genovese nel ‘500, ne sarebbe seguito uno olandese nel ‘600 (centrato su Amsterdam), poi uno inglese e infine uno americano. Ora ci troviamo al quinto ciclo, quello in cui il capitalismo diventa globale senza che esistano istituzioni per governarlo. Ed è qui che nasce la fase di stallo: le forze che hanno guidato la globalizzazione ne vorrebbero ulteriori dosi, ma chi sente di essere stato sconfitto prova a tirare il freno. Anche così, o forse soprattutto così, si spiegano la vittoria di Donald Trump, la Brexit, il dilagante voto di protesta, che sono sintomi di un problema ma difficilmente saranno la soluzione. Perché il processo che è stato avviato è di enormi proporzioni e indietro non si torna, ma davanti cosa c’è?
Articolo pubblicato su Business People, giugno 2019