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Il tempo, si sa, ha poteri quasi taumaturgici, a patto di lasciarlo scorrere, di non stuzzicarlo e di non fare bilanci, perché a volte può essere doloroso. Si scoprirebbe che, a distanza di 50 anni, non rimane quasi nulla delle speranze del ‘68 e nemmeno di quell’Italia. Anche solo da un punto di vista economico, le fotografie non potrebbero essere più diverse.
Boom economico: locomotiva Italia
Quella del 1968 era un’Italia che aveva slancio, propulsione. Se i manuali di storia economica assegnano il boom agli anni tra il 1958 e il 1962, è comunque vero che la crescita continuò a ritmi sostenuti per tutti gli anni ‘60. L’immagine del Paese restituita da alcuni indicatori economici è già una prima fotografia che fa male guardare: nel 1968 il pil cresceva del 7,2% ma non produceva inflazione, che infatti era all’1,3%, il tasso di disoccupazione era del 5,7 %, il rapporto deficit/pil era di molto inferiore al fatidico 3%, mentre quello tra debito pubblico e pil non superava il 35%. Oggi, solo per stare a quest’ultimo dato, è al 133%. Ma non è solo una questione di cifre. «Era un Paese che aveva due differenze fondamentali rispetto a quello di oggi. La prima è che si percepiva in crescita, con una parte cospicua della popolazione che si attendeva un miglioramento della propria condizione economica, sociale e professionale. Inoltre, quella era un’Italia dove la presenza dei giovani era molto avvertita, mentre oggi è l’esatto contrario: ci sono pochi giovani e soprattutto poco valorizzati», spiega a Business People Giuseppe Berta, storico dell’economia, ex direttore dell’Archivio storico Fiat e professore all’università Bocconi.
Cosa permise il miracolo economico dell’Italia
I motori che avevano consentito all’economia italiana di acquisire velocità erano diversi. In parte, avevano contribuito il Piano Marshall e l’ingresso nella sfera di influenza americana, che avevano spalancato alle imprese italiane mercati fondamentali. Ma c’era molto di più, dietro il nostro miracolo economico. «Un ruolo molto importante lo ha avuto il mercato interno, il quale era letteralmente decollato; gli acquisti simbolo di quella stagione sono l’automobile, la Vespa, le macchine da ufficio e poi gli elettrodomestici: i frigoriferi, le lavatrici e il televisore, che inseriamo impropriamente tra gli elettrodomestici ma che dominerà l’età del mass consumption
, del consumo di massa», continua Berta. Spulciando le statistiche Istat del tempo, questa maturazione economica si coglie chiaramente. Se ancora nel 1953, le famiglie italiane spendevano per mangiare il 52,4% del loro reddito, nel 1968 la quota era scesa al 37,4%, mentre il 62,6% era destinato all’acquisto di beni non alimentari e questi soldi erano carburante per l’economia.
C’è anche dell’altro, naturalmente. «Più che il Piano Marshall», dice a Business People
Pierluigi Ciocca, vicedirettore generale della Banca d’Italia dal 1995 al 2006, «decisivi furono altri fattori come la stabilizzazione monetaria che la nostra Banca centrale attuò con il governatore Luigi Einaudi – Domenico Menichella direttore generale – nel 1947, stroncando l’inflazione che fino a quell’anno era stata altissima. Sul piano strutturale, inoltre, bisogna considerare il ruolo giocato dalla siderurgia: l’Iri e, dal 1953, l’Eni di Enrico Mattei sciolsero i nodi che fino a quel momento avevano bloccato la meccanica italiana». Il ragionamento dell’ex vicedirettore generale di Bankitalia è chiaro: l’Ente nazionale idrocarburi, il futuro gigante di Stato in campo petrolifero, assicurò un costante approvvigionamento energetico a buon mercato, mentre l’industria siderurgica produceva l’acciaio di cui le altre industrie avevano bisogno. Senza l’acciaio, prodotto dalla Finsider – la società dell’Iri che operava in campo siderurgico – non ci sarebbero state le auto della Fiat, gli scooter, i macchinari industriali nella cui produzione l’Italia è un’eccellenza. Senza l’acciaio, il miracolo economico sarebbe stato un miracolino economico e senza l’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, al quale si devono anche infrastrutture portanti come l’Autostrada del Sole, forse non ci sarebbe stato affatto.
La grande differenza tra l’Italia del ’68 e quella di oggi: lo Stato
E qui si arriva a un’altra grande differenza tra l’Italia di allora e quella di oggi, oltre ai dati economici e alla condizione dei giovani: il ruolo dello Stato nell’economia. «Avevamo un forte soggetto pubblico e avevamo uno schema: l’economia mista, l’interazione continua tra il polo pubblico e quello privato. Lo Stato si occupava degli investimenti di lungo periodo e contribuiva a costituire quel quadro evolutivo che permetteva alle grandi imprese di crescere e far crescere l’economia. In un Paese dove l’imprenditoria privata non è forte e ha spesso orientamenti opportunistici, cioè è più propensa a guardare al breve periodo che al lungo, lo stato imprenditore ha compensato questa debolezza. Questo schema ha funzionato ancora per un po’ ma poi si è inceppato», ragiona il professor Berta.
I primi problemi dell’Italia: i salari
E qualcosa si inceppò, infatti. Come detto, il tasso di disoccupazione era molto basso, ma nel triangolo industriale Genova- Milano-Torino c’era addirittura la piena occupazione. La conseguenza fu che, negli anni ‘60, la domanda di lavoro quasi eccedeva l’offerta e, in parole povere, per una volta erano i lavoratori a dettare le condizioni e ciò portò alla costante crescita dei salari nel settore industriale. «Le retribuzioni aumentarono più del doppio della produttività e questo ebbe un effetto significativo sulla competitività del Paese a livello internazionale. A quel punto, il mondo imprenditoriale, nella seconda metà degli anni ‘60, rispose con una politica molto dura di contenimento delle crescita dei salari e con i blocchi contrattuali. Alla Marzotto ci furono 400 licenziamenti», spiega il professor Aldo Carera, ordinario di Storia economica alla Cattolica di Milano. Sotto la superficie, insomma, c’erano molti problemi e le piazze cominciavano a scaldarsi. «È vero che i salari crebbero nel tempo del miracolo economico ma meno dei profitti, e questo poneva un problema di distribuzione del reddito tra capitale e lavoro», spiega il professor Ciocca.
1968: i primi scioperi e gli scontri con la polizia
«C’era poi la questione delle infrastrutture, che sono insufficienti oggi, figurarsi allora. Centinaia di migliaia di emigrati lasciarono il Sud per trasferirsi a Torino, Milano ecc… e non trovarono nulla sul piano infrastrutturale, in termini di alloggi, asili per i figli o strutture sanitarie», continua l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia. Contestazioni e scioperi iniziarono già nel 1968. Non furono pochi episodi e non furono marginali. Il 29 marzo e il 6 e l’11 aprile si scioperò alla Fiat per la revisione dei cottimi e la riduzione dell’orario, con cariche e scontri con la polizia. Gravi incidenti ci furono il 19 alla Marzotto, a Valdagno, dove gli operai del turno di notte impedirono l’entrata di quelli del turno successivo. Nei disordini che seguirono, fu abbattuta la statua del conte Marzotto e attaccate le ville dei dirigenti. Nei mesi seguenti si scioperò in quasi tutte le fabbriche d’Italia, anche in quelle strategiche, come la Montedison di Venezia o l’Italsider di Napoli. Ma si diedero da fare anche gli operai della Cirio a Napoli, quelli di Pisa, contro la cassa integrazione a 0 ore alla Saint Gabin, e della Lancia a Torino. Spesso la protesta degenerava, i picchetti diventavano minacciosi e la polizia non esitava a usare le maniere forti. Un operaio fu ucciso a Nuoro, quattro braccianti, invece, morirono nei disordini di Avola e Battipaglia, dove si registrarono decine di feriti. Settantadue ore di sciopero furono indette alla Pirelli a fine novembre mentre il 3 dicembre gli operai circondarono il grattacielo del gruppo.
Pensioni in Italia: i problemi nascono dalla Riforma del ‘68
Inoltre, in autunno, i sindacati organizzarono uno sciopero generale per la riforma delle pensioni, che sarebbe arrivata l’anno dopo. «Bisognerebbe attribuire al ‘68 la riforma delle pensioni, in virtù della quale anche chi non aveva pagato i contributi poteva riceverne una; inoltre, veniva innalzato dal 65 al 74%, il rapporto tra la pensione e gli ultimi stipendi percepiti. In più, la riforma introduceva la scala mobile delle pensioni. Non sono dettagli. La riforma sarà approvata nel febbraio ’69, vero, ma dietro c’erano le lotte dell’anno precedente. Chiaro che il ’69 e gli anni ‘70 furono più esplosivi, però bisogna chiedersi perché quelle manifestazioni prodromiche non ci furono nel ’67 o nel ’66. Perché? Perché il sistema non era arrivato a un punto di rottura e ci era arrivato nel 1968», conclude lo storico della Cattolica. A quell’anno risalgono, oltre agli attuali problemi di sostenibilità della spesa pensionistica, anche i Cub, i Comitati unitari di base che, come spiega Carera, «nacquero in Pirelli e posero una serie di questioni che riguardavano il diritto di assemblea, i delegati nel reparto, questioni che sarebbero poi state affrontate con lo statuto dei lavoratori solo dopo».
Cosa resta del '68
La nascita del Sistema sanitario nazionale
Ed è sempre nel 1968 che andrebbe fissata la nascita del Sistema sanitario nazionale. Gli ospedali, che fino ad allora erano stati gestiti da enti di beneficenza, con la legge 132 del 12 febbraio, divennero enti pubblici. Lo Stato, insomma, provò a dare una risposta a certe istanze che provenivano dal basso. Ma non servì a molto. Qualcosa, negli equilibri sociali, politici ed economici, si era rotto. Il ’68 mise il titolo a questo tema, gli anni seguenti lo svilupparono. L’Italia, 50 anni dopo, sembra un altro Paese. In mezzo, ci sono tante occasioni mancate e tanti errori. La classe politica, per esempio, cominciò a dirottare l’Iri e ad annacquare i criteri di efficienza che avevano orientato la sua gestione fin lì, facendone uno strumento per la coltivazione di clientele, e decidendone poi lo smantellamento. La qualità del ceto dirigente cominciò a declinare e una delle conseguenze fu l’incapacità di sostituire il modello economico precedente con uno nuovo, adatto a nuove sfide.
Ma nel 1968, l’Italia non aveva ancora perso la strada. «La cosa interessante del ’68 italiano è questa discrasia tra un’economia che andava benissimo e il nervosismo dei giovani», riflette Ciocca. Quegli studenti sentivano di avere un futuro e lo volevano decidere. Cinquant’anni dopo, il quadro è un altro, come spiega, lapidario, Berta: «I giovani del ‘68 avevano grandi domande perché erano mossi da un senso di sicurezza. Non erano quelli di Glovo, Foodora ecc.. che devono correre in bicicletta con una pizza sulla schiena».