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Si fa presto a dire (povero) Francesco

Un nome, una garanzia. Dal patrono d’Italia a Papa Bergoglio la ricerca di un equilibrio etico nei mercati contemporanei impone una riflessione laica su produzione e rispetto delle prerogative di ogni uomo. Per rivendicare che è proprio nella regola francescana che affondano i principi (via via disattesi) della moderna economia

Che il gradimento del pontefice argentino sia in crescendo dal giorno della sua elezione al Soglio di Pietro, è un dato di fatto. Bergoglio piace per la sua affabilità mista a semplicità e, soprattutto, per aver scelto un nome – quello di Francesco – per la prima volta nella storia della Chiesa. Perché si richiama alla figura del poverello di Assisi, carica di riferimenti certamente spirituali, ma anche etici, “fruibili” pure da coloro che si rifanno a una diversa o a nessuna tradizione religiosa. Perché a maggior ragione in una fase di crisi epocale, la mancanza di riferimenti di qualsiasi genere sta indebolendo le (false?) certezze di larghe fasce di individui. In termini finanziari si potrebbe dire che lo spread tra il nome Francesco rispetto a quelli di Obama, Merkel, Hollande piuttosto che di Cameron o Putin sia in netto vantaggio. E guai a liquidare il primo inquadrandolo meramente in un’ottica caritatevole e spirituale, in quanto il patrono d’Italia e i suoi confratelli sono stati i fondatori e gli ispiratori della moderna economia civile, quella che sta alla base di un modo di concepire il capitale e l’impresa all’interno di un’ottica di utilità sociale, una funzione che – riportando al centro le prerogative del lavoro – bandisce le logiche della finanza fine a se stessa. Per intenderci, esattamente quella che ha innescato la crisi che sta prostrando l’economia occidentale. È quanto l’ex arcivescovo di Buenos Aires pare perseguire dall’istante in cui si è compiuta la sua elezione all’interno della Cappella Sistina, riallacciandosi a quel filo rosso intessuto nel 2009 dal suo predecessore Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate. Testo in cui le parole impresa, imprenditorialità e imprenditore sono ripetute, per inciso, ben 54 volte e dove per la prima volta la Chiesa comincia a occuparsi non più solo della distribuzione della ricchezza, bensì anche della sua produzione. A questo punto una domanda sorge spontanea: ma siamo certi che tutti quei politici, economisti e opinionisti, nonché imprenditori e gente comune che oggi tanto esaltano le virtù di papa Francesco si rendano conto della profonda portata etica ed economica che la scelta di tale nome realmente comporta?

POVERTÀ, SÌ. MISERIA, NO

Lo predicavano fin dalle origini i monaci di Francesco d’Assisi: la prima perseguita in quanto distacco dai beni materiali, la seconda perseguitata in quanto condizione che avvilisce l’uomo. Entrambe rivendicano una radice economica, che non viene nascosta con pretesti spirituali, bensì affrontata. Non a caso proprio tra il XIV e il XV secolo sono i seguaci di Francesco a gettare le basi dell’economia civile di mercato, altrimenti detta “economia francescana”, che si riassume nel fatto che l’attività economica va esercitata in un’ottica di bene comune (si lavora per sé, ma anche gli altri). In quanto tale il capitale non deve rimanere immobilizzato tanto meno sprecato, ma va fatto circolare per creare posti di lavoro e benessere collettivo. Il che include nella sfera economica non solo i soggetti normalmente attivi, bensì anche quelli meno “attrezzati” (handicappati, anziani, malati) che vanno agevolati a entrare nel circuito produttivo o comunque aiutati. Così come nelle città, in quanto luoghi in cui si esplicano le attività umane, vanno investite risorse per essere rese più adatte al vivere civile. Si noti come “inclusione” e “bene comune” sono concetti fondamentali di tale visione, che poi però il capitalismo successivo snaturerà a beneficio di pochi. Nel frattempo gli economisti in saio non si limitano solo a predicare, ma agiscono sulla realtà dando vita a tutta una serie di strumenti sopravvissuti nei secoli. Come spiega il professor Stefano Zamagni (LEGGI QUI LA NOSTRA INTERVISTA: FRANCESCO&FRANCESCO), dal 1300 i primi economisti sono tutti francescani e la loro è la prima scuola economica della storia, che elabora nuove tecniche finanziarie e commerciali quali la lettera di cambio, la ragioneria, la partita doppia nonché vere e proprie istituzioni come le banche. Infatti, il primo Monte di pietà fu creato dai francescani nel 1462, dove all’inizio si prestavano gratuitamente piccole somme di denaro, una sorta di microcredito ante-litteram, ma in seguito – con il crescere delle somme date in prestito – per impedire i casi di usura, i francescani posero un limite del 6% agli interessi. Di fatto legittimandoli in un’epoca in cui venivano considerati poco meno dell’usura. Gli stessi francescani – vivendo la stretta quotidianità dei fedeli – ebbero a legittimare anche l’accumulo di capitale sperimentandone direttamente l’esigenza economica. Convinti com’erano che non fosse sufficiente la pratica delle elemosine e della carità, in quanto piuttosto occorresse intervenire all’interno del tessuto economico affinché ognuno potesse trarne il giusto sostentamento: l’elemosina – era la convinzione dei monaci – aiuta a sopravvivere ma non a vivere, perché vivere è produrre e l’elemosina non aiuta a produrre. Ecco che allora l’imprenditore assume una forte valenza sociale, contrapposto al commendevole ricco che vive solo di rendita, tant’è che san Bernardino da Siena nel 1400 scrive che per essere onesto deve possedere quattro virtù: efficienza, responsabilità, laboriosità e assunzione del rischio; sottolineando di fatto la funzione etica di tale figura all’interno della società in cui opera (i mercanti onesti vengono definiti “esperti di ricchezza” e “benefattori” della comunità). Non è un caso quindi che diversi studiosi ritengano oggi che la Riforma protestante di Calvino, considerata la progenitrice del pensiero capitalista, abbia semplicemente rinvigorito le economie nelle nazioni in cui si è diffusa, ma che piuttosto i suoi fondamenti affondino le radici nei Comuni cattolici del Medio Evo, e che i frati di Francesco – predicando il benessere comune e la lotta alla miseria – abbiano costruito la struttura portante dell’economia di mercato, sopravanzando di gran lunga per lucidità di intenti le barriere teologiche che impedivano alla Chiesa a loro contemporanea di guardare in faccia le reali condizioni economiche in cui versavano i fedeli.

PRIMAVERA (NON SOLO) VATICANA

Vien da chiedersi allora, fino a che punto papa Francesco si innesti in questa tradizione. I suoi continui riferimenti alla crisi finanziaria, all’asservimento generalizzato al denaro, alla mancanza di prospettive dovuta alla precarietà, al desiderio di vedere una Chiesa povera per i poveri, alla necessità del lavoro in quanto condizione per tutelare la dignità umana, ne fanno una figura fortemente economica e, inevitabilmente, politica. Inconciliabile per connotazione filosofica, teologica e sociale con l’immagine degli scandali sorti negli ultimi anni in seno alla Curia, in primis le vicende legate allo Ior (Istituto per le opere di religione), che fanno certamente il paio con gli scandali sessuali (dalla pedofilia alle lobby gay), e che hanno offuscato l’immagine del Vaticano, provocando anche lo choc delle dimissioni di Benedetto XVI. Non a caso, uno dei più severi teologi francescani, seppur fautore di quella teologia della liberazione che l’argentino Bergoglio ha liquidato da tempo come “anacronistica”, il brasiliano Leonardo Boff, ha dichiarato: «Francesco darà una lezione alla Chiesa. Usciamo da un inverno rigido e tenebroso. Con lui viene la primavera». Ma di cosa si compone questa “primavera vaticana” che amplia inevitabilmente la sua influenza sulla circostante realtà economica? Soprattutto di parole e di gesti. «Sarebbe auspicabile realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per governare»; «c’è una corruzione tentacolare e una evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali, la volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti»; «la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo continuano a vivere in una precarietà quotidiana con conseguenze nefaste». E ancora: «Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole». Parole pesanti e non le sole, che echeggiano su un’attualità economica impietosa, dette con una particolare convinzione visto che Bergoglio di crisi se ne intende avendo vissuto da vescovo il default dell’Argentina nel 2002. Parole che il papa accompagna a gesti e azioni che in qualche modo danno a esse corpo e sostanza, al momento soprattutto sul piano simbolico. Infatti, in un’organizzazione sacrale come la Chiesa cattolica in cui il simbolo è sostanza, il papa ha scelto di dismettere quelli legati al potere come la mitra trapunta d’oro e gemme, la mozzetta purpurea con orlo di ermellino, le scarpe e il copricapo rossi realizzati su misura, il trono e la tiara, continua ad alloggiare nel convento di Santa Marta e non negli appartamenti vaticani, facendo colazione insieme agli altri ospiti, disdegnando negli spostamenti le limousine, rispondendo di suo pugno alle lettere, imponendo alle guardie del corpo bagni di folla al limite della temerarietà, telefonando direttamente per sollecitare le gerarchie vaticane. Un papa che, come rileva il teologo tedesco – solitamente ipercritico con Oltretevere – Hans Kung: «Si presenta come un uomo comune. Tutto ciò avrebbe rallegrato Francesco d’Assisi», e che avendo «coraggiosamente» adottato proprio il nome del fraticello fa intravedere tutta una serie di riforme, un mutamento di paradigma all’interno di una Chiesa ferita. Il lasso di tempo che Kung concede al successore di Pietro per attivare tale rivoluzione sono cinque anni. Un lustro che qualsiasi laico sarebbe disposto a sottoscrivere appieno se questa nuova Chiesa rinnovata riuscisse a essere vissuta finalmente dalla politica non più in quanto padrona o serva bensì, come ebbe a dire Martin Luther King, come coscienza dello Stato.

COSA SI SONO INVENTATI I FRATI…

MONTE DI PIETÀ È il padre francescano Michele Carcano a fondare nel 1462 a Perugia il primo Monte di pietà. Erano gli antenati delle banche che avevano come obiettivo quello di curare la miseria, mettendo a disposizione delle persone meno abbienti piccole somme di denaro, con un basso tasso di interesse, affinché potessero sopravvivere o a supporto di un’attività economica.

CAMBIO Nel 1302 il frate Alessandro di Alessandria sottolineò come l’attività del cambiavalute non prefigurasse l’usura. In quanto costui non poteva essere obbligato a prestare la sua opera gratuitamente, anche perché tale arte era necessaria per i mercanti che andavano in giro per il mondo a procacciare merci, e senza tale attività non poteva esistere quindi vita sociale.

INTERESSEFu il francescano Pietro Di Giovanni Olivi (1248-1298) a sottolineare come la ricompensa che chiunque altro avesse progetti di investimento economico fruttifero, pretendeva per distrarre il proprio denaro e darlo in prestito, fosse da considerare come un risarcimento del danno subito, quindi lecito.

GIUSTO PREZZO È sempre frate Olivi a sostenere che il valore di una cosa è dato dalla concorrenza di tre cause: le proprietà che la rendono adatta a soddisfare i nostri bisogni; la difficoltà a essere reperita; la preferenza individuale degli acquirenti. Pertanto il giusto prezzo può superare di fatto il valore oggettivo dello stesso senza incorrere nell’usura.

PARTITA DOPPIAVenne perfezionata dal matematico francescano Luca Pacioli (1445-1517), collaboratore a Milano di Leonardo: «Perché bisogna tenere i conti in ordine per produrre, altrimenti non c’è la sostenibilità». Le regole per la tenuta dei libri a partita doppia sono contenuti nella sua Summa de arithmetica, geometria, proportioni, et proportionalità (1494).

RISCHIO D’IMPRESA Si deve ancora a diversi studiosi della scuola francescana, con i suoi calcoli statistici anche legati al gioco d’azzardo e al concetto di rischio inutile, che si struttura in pieno Medio Evo l’apertura alle concezioni economiche del rischio d’impresa. Così facendo, comincia ad assumere anche un valore commerciale.

IMPRENDITORIALITÀ È a opera di san Bernardino da Siena (1380-1444) che si struttura il concetto di abilità manageriale, che combina competenza ed efficienza. Efficienza significa essere informati sui prezzi nonché sui costi e sulle qualità della merce, avendo la capacità di assumersi dei rischi e di fiutare le opportunità. Tali capacità, unite al duro lavoro, giustificano quindi anche un largo profitto.

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Giotto (1266-1336), Affresco da Storie di S. Francesco: la rinuncia agli averi , all’interno della Basilica di S. Francesco ad Assisi