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Salario o reddito garantito? In Italia nessuno dei due

È bastata una dichiarazione del premier lussemburghese Juncker per mobilitare i fronti più populisti del welfare tricolore, che hanno confuso contrattazione con sussidio. Ma nel nostro Paese, a differenza di molte altre nazioni europee, queste tutele sociali sono destinate a latitare

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Il 10 gennaio scorso, pochi osservatori internazionali si aspettavano di ascoltare le parole di Jean-Claude Jun­cker, classe 1954, premier di centrodestra del Lussem­burgo e presidente uscente dell’Eurogruppo, l’organi­smo che coordina i ministri economici e finanziari dei paesi di Eurolandia. «Bisogna istituire un salario minimo in tutto il Continente», ha detto in sostanza Juncker che, pur es­sendo un moderato doc, iscritto al Partito Popolare Europeo, ha citato persino Karl Marx, padre del pensiero comunista. E così la frase del premier lussemburghese è rimbalzata subito sulle agenzie di stampa internazionali, raccogliendo una va­langa di reazioni positive, soprattutto in Italia. A Sud delle Alpi, infatti, il monito di Junker è apparso quanto mai attua­le e opportuno, almeno a sentire alcuni esponenti del mondo politico, che considerano il nostro Pae­se particolarmente arretrato nelle politiche socia­li. Peccato, però, che le parole dell’ex-presidente dell’Eurogruppo siano state un po’ travisate. Mol­ti commentatori, infatti, hanno pensato che stesse proponendo l’istituzione di un reddito minimo ga­rantito, cioè di un sussidio statale contro la pover­tà, che viene già erogato in quasi tutti i Paesi euro­pei ai cittadini disoccupati con redditi bassi o bas­sissimi. In realtà, il premier lussemburghese stava parlando di un’altra cosa, cioè di una retribuzione di base, di cui dovrebbero beneficiare tutti i lavo­ratori europei, per evitare disuguaglianze e sfrutta­mento della manodopera a basso costo. La differenza tra queste due forme di protezione sociale non è poca cosa, poiché il reddito minimo garantito è un sussidio a carico dello Stato, mentre il salario minimo è stabilito dal­la legge e viene pagato dalle aziende che assumono. Ma nel­la politica italiana, si sa, i dettagli hanno quasi sempre poca importanza e lo “Juncker-pensiero” ha incontrato immediata­mente una lunga sfilza di adepti. Alla base di questa valanga di consensi, però, c’è anche un’altra ragione da non sottovaluta­re. L’Italia, infatti, è l’unica nazione in Europa dove queste due tutele sociali sono completamente assenti: non esiste il reddi­to minimo garantito e non esiste neppure il salario minimo. Non a caso, entrambi sono entrati prepotentemente nell’ulti­ma campagna elettorale e sono stati proposti da molti candi­dati di diversi schieramenti. Tuttavia, una volta terminata la febbre delle urne, non sarà facile passare dalle parole ai fatti. Redditi e salari minimi sono cose giuste, almeno in linea di principio, ma non è detto che siano applicabili in Italia, senza appesantire troppo il bilancio pubblico o irrigidire eccessiva­mente il mercato del lavoro. Le prime difficoltà si incontrerebbero subito nel voler intro­durre, per legge, una retribuzione di base per tutti i lavorato­ri. È vero, infatti, che il salario minimo esiste in molte nazio­ni europee, come per esempio la Francia e la Spagna, ne­ gli stati ex-comunisti quali la Bulgaria o l’Ungheria e persino nell’ultra-liberista Gran Bretagna (si veda la tabella sul Salario minimo garantito). Ci sono però molti altri Paesi, come la Germania, la Danimarca o l’Austria, che hanno scelto di percorrere un’altra strada: hanno preferito lasciare spazio alla contrattazione tra le parti sociali, assegnandole il compito di fissare anche dei livelli minimi per i salari. In altre parole, sono gli accordi di lavoro (siglati dalle associazioni imprenditoriali e dai sindacati di ogni singolo settore produttivo) a stabilire l’ammontare della paga-base dei dipendenti, che tutti i datori di lavoro devono poi rispettare. Anche l’Italia ha scelto di inserirsi nel novero di queste nazioni, in cui la contrattazione collettiva governa quasi tutti i meccanismi del mercato del lavoro. Non è detto, quindi, che l’introduzione di un salario minimo (benché condivisibile a livello teorico) sia in realtà un fatto positivo per il nostro Paese. La pensa così Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia ed ex-allievo di Marco Biagi, il noto studioso assassinato oltre dieci anni fa dalle Brigate Rosse. «Sicuramente», dice Tiraboschi, «l’introduzione di un salario minimo significherebbe maggiore rigidità per il nostro mercato del lavoro». Secondo il professore dell’università emiliana, infatti, «deve essere la contrattazione collettiva a garantire adeguati livelli delle retribuzioni, tenendo conto delle peculiarità di ogni singolo settore». Altrimenti, a detta di Tiraboschi, si rischia di indebolire il ruolo degli accordi di lavoro nazionali o territoriali e di provocare un effetto opposto a quello sperato, cioè una riduzione dei minimi salariali, piuttosto che un innalzamento. Va detto, però, che in Italia esiste anche un problema tutt’altro che trascurabile: ci sono molti lavori flessibili, come le collaborazioni a progetto, che non sono coperte dai contratti collettivi di lavoro. Queste forme di assunzioni, spesso precarie, corrono dunque il rischio di essere remunerate con stipendi da fame, proprio per l’assenza di regole salariali che le tutelino in maniera adeguata. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che l’ultima e contestatissima riforma del lavoro, voluta dal ministro del Welfare Elsa Fornero, ha inserito un cambiamento significativo anche su questo fronte. In particolare, per evitare il diffondersi del lavoro sottopagato, ha introdotto il principio dell’equo compenso. La nuova legge sul lavoro stabilisce infatti che le retribuzioni erogate dalle aziende ai collaboratori a progetto devono essere allineate o superiori ai minimi salariali stabiliti dai contratti collettivi. In assenza di questi ultimi, il compenso deve comunque essere commisurato a quello di un qualsiasi dipendente che svolge le stesse mansioni e ha le stesse responsabilità del collaboratore a progetto. Affermare che in Italia i salari minimi sono completamente assenti, insomma, oggi appare un po’ un’esagerazione. Discorso diverso, invece, per il reddito minimo garantito che, in effetti, nel nostro Paese è completamente assente (a parte qualche sperimentazione a livello ragionale, poi naufragata). In Europa soltanto la Grecia ci fa compagnia, mentre nel resto del Vecchio Continente, dalla Bulgaria all’Inghilterra, dalla Spagna alla Germania, lo Stato eroga un sussidio contro la povertà (in genere a tempo indeterminato) che varia tra i 19 e i 2 mila euro al mese, a seconda delle singole nazioni e del numero di figli posseduti dai beneficiari. Eppure, nella Penisola la spesa sociale non è affatto bassa, anche in assenza di un reddito minimo garantito. Anzi, è più o meno in linea con la media europea, cioè attorno al 30% del Pil, leggermente inferiore a quella della Francia o della Germania e addirittura superiore rispetto a Spagna e a Regno Unito.Purtroppo, però, la spesa sociale del governo di Roma è an­che abbastanza squilibrata: si concentra su alcune catego­rie, come i pensionati, e trascura un po’ troppo spesso al­tre fasce di popolazione realmente bisognose di tutela, qua­li i giovani, i disoccupati cronici o le famiglie numerose. Non a caso, la percentuale di italiani vicini alla soglia del­la povertà è molto più elevata tra chi ha meno di 17 anni (29,8%) che non tra gli over 65 (20% circa).

TABELLE DI APPROFONDIMENTO

Il salario minimo garantito in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti

Il reddito minimo garantito in Europa. Solo Italia e Grecia non ce l’hanno

La spesa sociale in Europa (in percentuale del Pil)

Percentuale della popolazione a rischio di povertà in Europa

Inoltre, come ricorda Gianluca Busilacchi, docente di So­ciologia dell’organizzazione all’Università di Macerata, il sistema dei sussidi e delle agevolazioni per i cittadini meno abbienti in Italia è anche molto frammentato e si di­sperde in una lunga serie di interventi abbastanza mode­sti, destinati ciascuno a una singola categoria. Ci sono, per esempio, i bonus per gli incapienti, le detrazioni fiscali per gli affitti, le detrazioni per le famiglie numerose, gli scon­ti sull’Imu per chi ha dei figli a carico e via dicendo. «Me­glio sarebbe», dice Busilacchi, «se molte forme di assisten­za venissero accorpate e riorganizzate, istituendo un sussi­dio universale contro la povertà, magari di importo conte­nuto, ma destinato alla generalità della popolazione biso­gnosa». Se fosse creato questo ammortizzatore sociale, se­condo il professore, il nostro Paese compirebbe finalmen­te un passo di avvicinamento all’Europa e non sarebbe più, ­assieme alla Grecia, un caso isolato in tutto il Continente. Non la pensa allo stesso modo Tiraboschi, secondo il quale dovrebbero essere invece individuati degli strumenti alter­nativi al reddito minimo garantito, per fronteggiare l’indi­genza e combattere la povertà: per esempio, interventi mi­rati, come le esenzioni dai costi dei servizi pubblici e dalle scuole di infanzia o altri servizi come la copertura delle spe­se del riscaldamento e degli acquisti di generi alimentari e di farmaci. «Si tratta di misure che già esistono», dice, «ma che dovrebbero essere potenziate». L’ex-allievo di Marco Biagi, inoltre, invita a non farsi illusioni sugli effetti miracolosi che il reddito minimo garantito può avere nella lotta all’indigenza: «secondo i dati di Eurostat», continua, «mol­ti Paesi in cui esiste questo sussidio, come Bulgaria, Roma­nia o Ungheria, hanno una quota di popolazione a rischio povertà tra il 30 e il 49%, cioè più alta rispetto all’Italia».In definitiva, a detta sua, «la protezione più efficace con­tro la povertà non è il reddito minimo garantito ma il lavo­ro: un lavoro vero, non lavori fittizi o di pubblica utilità che poi generano dipendenza e precariato diffuso». Di parere diverso è invece Busilacchi che, negli anni scorsi, ha dedi­cato uno studio approfondito alle politiche europee contro la povertà, per conto della Commissione di indagine sull’e­sclusione sociale. Nella sua analisi si mette in evidenza un aspetto importante dei sistemi di welfare del Vecchio Con­tinente: tutti i sussidi contro la povertà prevedono l’obbligo per il disoccupato di partecipare a programmi attivi di for­mazione, per il reinserimento nel mondo del lavoro. Inol­tre, le indennità vengono revocate a chi rifiuta un’offerta di impiego o (è il caso del jobseeker’s allowance della Gran Bretagna) a chi ha dei risparmi da parte, con cui vivere au­tonomamente. A detta di Busilacchi, insomma, il reddito minimo garantito non è affatto una forma di assistenziali­smo improduttivo ma un mezzo efficace per combattere la povertà, che si aggiunge agli altri ammortizzatori so­ciali, come la cassa integrazione guadagni e l’inden­nità ordinaria di disoccupazione, destinati a chiunque perda il lavoro.Comunque la si pensi, però, resta aperto un proble­ma: la mancanza di una copertura finanziaria per isti­tuire questo nuovo sussidio, visti i vincoli del bilancio pubblico italiano. Tempo fa, il costo del reddito mini­mo garantito è stato stimato nell’ordine di 15 miliardi di euro all’anno, che potrebbero essere stanziati senza gra­vare troppo sui conti dello Stato, riorganizzando tutto il si­stema degli ammortizzatori già esistenti. Una cifra di per sé non astronomica (circa l’1% del nostro Pil), che verrebbe in parte recuperata tagliando altre forme di assistenza. Va ricordato, tuttavia, che in Italia non è mai stato facile met­tere mano alla spesa pubblica e togliere risorse a qualche ca­tegoria un po’ troppo protetta.