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Quando Thomas Piketty, per quanto attraverso tabelle e calcoli poi rivelatisi in parte sbagliati, propose una tassa patrimoniale globale per riequilibrare la disuguaglianza tra i cittadini del mondo, venne guardato dagli adepti del liberismo “senza se e senza ma” come un eccentrico economista in cerca di pubblicità.
Altri, che potremmo definire grossolanamente “la sinistra globale”, pensarono di aver trovato nello studioso francese colui che, finalmente, dimostrava con la forza inequivocabile dei numeri, la correttezza della loro tesi: il mondo è diseguale. Anzi, è “troppo” diseguale e, per colmare il divario tra ricchi e poveri, una patrimoniale planetaria è proprio quello che ci vuole, perché è il modo più veloce per “punire” quei ricchi che vivono di rendita e premiare i poveri che vivono di lavoro. I primi prestano denaro, i secondi lo ricevono in prestito e sono costretti a passare tutta la vita a tentare di ripagarlo.
D’altra parte succede così anche con le Nazioni: da una parte ci sono le istituzioni internazionali che “assistono” i Paesi in difficoltà ricoprendoli di soldi, dall’altra ci sono quegli stessi Paesi che sono costretti a lavorare di più e guadagnare di meno per ripagare i prestiti ricevuti. Per uscire da questa spirale le strade sono diverse, ma le più dibattute sono due: un taglio secco allo stock del debito oppure, appunto, la soluzione “à la Piketty”, la patrimoniale mondiale, mantra dei no global integralisti.
DAL 2007 AL 2014 I 47 MAGGIORI
PAESI DEL MONDO HANNO PRESO
IN PRESTITO 57 MILA MILIARDI
IN PIU' RISPETTO A PRIMA
CHE INIZIASSE LA GRANDE CRISI
Per questo fa una certa impressione leggere che il McKinsey Global Institute, il think tank di una delle più importanti società mondiali di consulenza, è giunto alle stesse conclusioni. Il suo rapporto Debt and (not much) deleveragin g parte da una constatazione: il mondo è troppo indebitato ma, soprattutto, durante la crisi economica, cioè negli ultimi sette anni, tutti (Stati, imprese e famiglie) hanno aumentato i propri debiti, non li hanno affatto ridotti.
Dal 2007 al 2014 le 47 maggiori economie del mondo hanno preso in prestito 57 mila miliardi in più rispetto a prima che iniziasse la Grande crisi. Vediamo i numeri, con l’avvertenza che quando McKinsey Global Institute parla di debito include quello statale, quello delle famiglie e quello delle imprese non bancarie. Ebbene: quello delle 47 principali economie del mondo ha toccato l’iperbolico rapporto del 286% rispetto al pil.
Chi lo ha aumentato di più sono stati: Portogallo (del 100%), Cina (83%), Grecia (103%), Singapore (129%) e Irlanda (172%), mentre l’Italia si è fermata al 55% che porta il nostro debito complessivo (sempre pubblico più privato) al 259% rispetto al pil. «Il dato più preoccupante è quello della Cina» - commenta Riccardo Puglisi ricercatore di Politica Economica all’Università di Pavia e ascoltato editorialista, «che ha visto quadruplicare l’ammontare di debiti soprattutto da parte delle famiglie che contraggono mutui immobiliari ». Significa che in Asia si sta creando una bolla immobiliare come quella scoppiata in Usa sette anni fa? Purtroppo sì, è possibile.
Passiamo all’Italia. Come in quasi tutti i Paesi presi in considerazione dal rapporto, anche da noi sia lo Stato, sia le famiglie, sia il settore industriale hanno incrementato i loro debiti: lo Stato di 47 punti percentuali, le famiglie di cinque, e le imprese di tre. Ma ammesso e non concesso che il debito sia un male (oltre una certa soglia lo è certamente, anche il difficile è stabilire quale sia questa soglia, soprattutto per gli Stati), c’è chi è riuscito a diminuirlo.
«In effetti, ci sono anche buone notizie che emergono dal rapporto», spiega ancora Puglisi, «bisogna cercarle dal lato delle istituzioni finanziarie: le banche hanno diminuito in maniera decisa il loro grado di indebitamento, e nel contempo il “settore finanziario ombra” – cioè i soggetti come banche d’affari, fondi monetari e fondi speculativi che prestano soldi pur non essendo banche – svolge un ruolo più contenuto, e soprattutto diminuisce il contenuto di rischio delle sue operazioni».
«Sì», conferma Vladimiro Giacchè, presidente del centro studi Europa ricerche ed economista di formazione marxista, «l’unico dato positivo sono la riduzione della leva finanziaria e l’aumento della solidità patrimoniale nel settore, peraltro non in Italia». L’effetto dell’aumento del debito statale consiste nella crescita (nonostante il calo dei tassi) degli interessi da pagare. Ancora oggi si tratta di circa 70 miliardi di euro l’anno.
Un macigno sulla strada della ripresa? In effetti, se da una parte lo Stato italiano si è dimostrato in questi sette anni un gestore dei soldi peggiore rispetto a famiglie e imprese (visto che queste ultime hanno aumentato il proprio debito molto meno di quanto abbia fatto lo Stato), è anche vero che il settore pubblico ha svolto la sua funzione ammortizzatrice durante la crisi del debito. Se lo Stato avesse seguito la stessa strada seguita dalle famiglie, la crisi sarebbe stata peggiore anche se, ovviamente, dipende da come lo Stato ha usato il maggior debito che ha contratto, ma questo è un altro discorso.
E a leggere il rapporto di quei “liberisti” della McKinsey si scopre che per loro il debito pubblico non è poi così cattivo come si dice o come pensa la Germania che, infatti, ha un rapporto pari a “solo” 188%. «Un momento», avverte Giacchè, «il dato sulla crescita dei debiti pubblici va letto assieme a quello relativo alle banche: infatti una delle principali risposte alla crisi scoppiata nel 2007 è stata costituita da un trasferimento dei debiti privati, in particolare di quelli del settore finanziario, ai governi: gli Stati hanno, cioè, aumentato il proprio indebitamento per salvare le banche. Nella sola Unione Europea, ancora nel 2013, 1.600 miliardi di euro erano già stati spesi a questo scopo (l’Italia era il fanalino di coda con “appena” 15 miliardi, e questo – assieme alla doppia recessione – contribuisce a spiegare il peggiore stato di salute delle banche italiane). Una socializzazione delle perdite che non ha precedenti nella storia. In altre parole», conclude, «l’impressione sgradevole è che si sia deciso di combattere la crisi usando come medicina due ingredienti essenziali della crisi stessa: politiche monetarie espansive e aumento del debito».
Il fatto grave è che questo livello di debito non sia più sostenibile: significa che non esiste alcun indicatore che segnali il fatto che nei prossimi anni esso sia destinato a scendere. Anzi: tutto ci dice che salirà ancora, a meno che l’economia nel suo complesso non cresca in modo significativo. Quindi, ecco la conclusione del rapporto, il problema non sono i debiti ma la crescita.
Alcuni Paesi, spiega McKinsey, come ad esempio la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia, la Grecia e l’Italia, se vogliono avere qualche possibilità di ridurre il proprio debito in futuro, devono ridurlo al ritmo del 2% l’anno. Un’operazione possibile solo se l’economia crescesse, in Italia, del doppio rispetto a quanto previsto. Ora, sempre per stare ai numeri: le proiezioni internazionali dicono che l’Italia crescerà dello 0,9% l’anno tra il 2014 e il 2019 ma, a parte il fatto siamo già in ritardo (il pil 2014 è stimato essere negativo per lo 0,4%), per avere qualche speranza di salvarci dalla spirale del debito avremmo bisogno di crescere di almeno l’1,9%. In caso contrario il rapporto tra debito e pil salirà al 151% rispetto al pil nel 2019.
Se per McKinsey il debito non è cattivo in sé, lo diventa quando l’economia non cresce. E, per dimostrarlo, fa un altro calcolo. Supponiamo che la scadenza media del debito dei dieci Paesi che hanno un rapporto superiore al 300% del pil sia di cinque anni. Questo significa che ben il 60% della crescita dell’economia di quei Paesi deve andare a rifinanziarlo. Se anche solo in uno dei cinque anni considerati la crescita non fosse sufficiente a pagare le cedole, l’effetto sarebbe l’esplosione di una crisi di fiducia da parte dei creditori verso la capacità dei debitori (di tutti i creditori) di rimborsarli.
QUESTO LIVELLO NON E' PIU' SOSTENIBILE:
NESSUN INDICATORE FA PENSARE
CHE SIA DESTINATO A SCENDERE,
ANZI, TUTTO DICE CHE CONTINUERA'
A CRESCERE NEL TEMPO
Ecco perché far crescere il pil è decisivo: per evitare un nuovo cataclisma sui mercati dei capitali, quelli che, di fatto, reggono l’economia di un mondo che si è indebitato in maniera sconsiderata. Ma non tutti condividono l’idea che ridurre il debito sia giusto. Se Gran Bretagna, Spagna, Francia, Grecia e Italia intraprendessero politiche restrittive (come, per altro, hanno fatto e continuano a fare) tutti insieme contemporaneamente, questo renderebbe del tutto inutili gli sforzi di uscire dalla recessione perché, come dice Paul Krugman, «la mia spesa è il tuo reddito», quindi se nessuno di questi Paesi spende, nessuno di questi Paesi guadagna.
Per il premio Nobel, che ha sostenuto la sua tesi in uno dei suoi seguitissimi editoriali sul New York Times , ciò che serve oggi non è affatto ridurre i debiti, ma aumentarli, anche perché è molto difficile fissare un tetto massimo al livello di debiti che un Paese o un’impresa può sopportare. La teoria dei due economisti Carmen M. Reinardt e Kennet S. Rogoff, secondo i quali se l’indebitamento pubblico di un Paese supera la soglia del 90% del pil, la crescita dell’economia ne soffre fortemente, è, in effetti, sostanzialmente sbagliata.
D’altra parte, all’inizio dell’anno, lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato uno studio che dimostra che in realtà gli Stati stanno diminuendo la loro spesa, al netto di quella per interessi. Se si continua su questa strada, dalla recessione non si uscirà mai, perché il combinato disposto delle politiche di austerità europee seguite finora e la bassa crescita dell’eurozona coniugate a un’inflazione negativa, hanno come effetto quello di far correre ai Paesi dell’euro il rischio di una fine come quella giapponese: decenni di crescita bassa o di sostanziale stagnazione.
«Sì, ma», aggiunge Giacchè, «oltre che a trasferire i debiti privati sui bilanci pubblici, l’altra risposta alla crisi è stata rappresentata da politiche monetarie ultraespansive, convenzionali (riduzione dei tassi d’interesse) e non (acquisto di assets da parte delle banche centrali, con QE e simili). Questo è avvenuto prima negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone, poi anche nell’Eurozona. Di fatto il mondo è stato inondato di liquidità. È dubbio che questo garantisca una ripresa adeguata dell’economia: in fondo, negli stessi Stati Uniti – a cui dall’Europa si guarda con giustificata invidia, viste le performance dell’eurozona in termini di “decrescita infelice” – a fronte di una massa monetaria quadruplicata, i risultati in termini di crescita del pil dopo la crisi non sono stellari: un 2% annuo circa. In compenso, siccome quella liquidità si riversa prevalentemente sui mercati finanziari (azionari e obbligazionari), essa gonfia nuove bolle e prepara nuove crisi. Il sogno di poter rimettere in piedi il modello di crescita a debito che si è rotto nel 2007/2008 è, appunto, destinato a rimanere un sogno. Il risveglio non sarà piacevole».
Ma il bello arriva adesso, cioè arriva quando McKinsey si chiede come si può uscire dalla spirale del debito. Intanto suggerisce che per evitare di farne di nuovo, soprattutto da parte dei privati, bisognerebbe abolire gli sconti fiscaliper chi sottoscrive un mutuo immobiliare, anche se sembra impossibile proporre una misura del genere in Usa, o anche in Italia, dove la possibilità di detrarre dalle tasse la spesa per comprare la casa è considerata un diritto umano.
Ma è quando si parla di come ridurre quello esistente che entra in scena Piketty perché, scrive McKinsey, la prima strada è quella di una super-tassa patrimoniale mondiale che dovrebbe servire non tanto per ridurre la disuguaglianza tra le persone ma per ripagare i debiti statali, quelli che sono aumentati di più. La seconda strada è quella di una ristrutturazione del debito, espressione elegante dietro la quale si cela la proposta di un taglio netto dello stock del debito di uno Stato. Questa è stata la promessa elettorale con la quale Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra Siryza ha vinto le ultime elezioni greche; il fatto che la trattativa con l’Europa gliel’abbia fatta rimangiare è un altro discorso.
La terza strada è la privatizzazione di buona parte delle proprietà pubbliche. Insomma: McKinsey, Piketty e Tsipras dicono, con accenti diversi, la stessa cosa. Ma nelle ricette di McKinsey c’è anche una spruzzata di Salvini, il leader della Lega che propone l’uscita dall’euro. Il think tank cita, infatti, come esempi virtuosi quelli di Finlandia e Svezia. I due Paesi, negli anni ’90, aumentarono considerevolmente il debito pubblico durante una recessione, ma il debito privato si ridusse rapidamente, grazie agli investimenti statali e questo portò benefici anche al settore pubblico.
La crescita economica ripartì anche grazie al conseguente deprezzamento delle monete nazionali di oltre il 30%, che provocò una forte crescita delle esportazioni. Tutte operazioni che possono essere perseguite solo con una moneta nazionale, con la sovranità monetaria ovvero, come appunto dice Salvini, l’uscita dall’euro. E, forse, è proprio questo quello che McKinsey vuole dirci.