Ripresa economica post Covid-19: torneranno i Roaring Twenties?

Il passato è sempre più dolce del presente, soprattutto se non lo si è vissuto in prima persona. Se poi ha il ritmo di un irresistibile charleston o del primo jazz e l’odore stordente di locali fumosi e rumorosi dove intellettuali, pittori e cantanti di cabaret vivono notti infinite, come si può resistere? I vecchi gloriosi Roaring Twenties sono un decennio che non ha mai smesso di affascinare, così densi di arte, novità, vita e foschi presagi. Stretti tra una Guerra mondiale e una crisi economica epocale, sono una sorta di Eden maledetto.

In molti sostengono che i ruggenti anni Venti stiano per tornare. Lo fa, con tutta la credibilità del suo cursus accademico, Nicholas Christakis, socio-epidemiologo di Yale, nel suo Apollo’s Arrow. The Profound and Enduring Impact of Coronavirus on the Way We Live . Ridotta all’essenziale, la sua teoria è che dopo un lungo periodo di privazioni e sofferenze, la società tornerà a vivere esattamente come si torna a respirare dopo un’apnea prolungata: avidamente. Non riprenderemo, quindi, da dove il Covid ci aveva interrotti, ma cominceremo un nuovo capitolo, esuberante, fatto di consumi, di eccessi, con cui ci lasceremo alle spalle il lutto e il senso di repressione che ci è stato imposto. Fu così un secolo fa, quando si usciva da un’altra pandemia, la Spagnola, che aveva fatto oltre 50 milioni di vittime.

In realtà, il libro è un po’ più complesso anche se non necessariamente più convincente; l’autore, per esempio, sostiene che il virus non verrà sconfitto prima del 2023 e che quindi il nuovo periodo d’oro non comincerà prima del 2024 ma la lettura prevalente che ne è stata data ha sdoganato un parallelo che ha fatto colpo su non pochi commentatori. Il Financial Times , per esempio, in un articolo del primo gennaio di quest’anno dal titolo Goodbye virus-ridden 2020, hello Roaring Twenties  dava il benvenuto al nuovo decennio, sottolineando come la fine della I Guerra mondiale e di un’epidemia influenzale particolarmente virulenta tra il 1918 e il 1920 «abbiano lasciato spazio a un decennio che sarebbe stato ricordato per lo slancio economico, la rivoluzione sociale, il consumismo, l’autogratificazione e la libertà». E le analogie non mancano, effettivamente.

La clausura forzata e la chiusura di buona parte delle attività commerciali hanno costretto al risparmio. In Italia, stimava una ricerca dell’Ufficio Studi di Intesa Sanpaolo in collaborazione con il Centro Einaudi, a settembre 2020 risultavano disponibili sui conti degli italiani 126 miliardi di euro in più, carburante per una ripartenza alla grande. Un’altra analogia può essere trovata nell’esuberanza borsistica, in stridente contrasto con il crollo del Pil e dell’economia reale, perfettamente riassunta in questo titolo del Washington Post : «Le borse chiudono il 2020 a livelli record nonostante il virus continui a diffondersi e milioni di persone siano alla fame». Anche un secolo fa, le Borse vissero una stagione semplicemente indimenticabile. Tale era la frenesia che aveva travolto gli americani che, come racconta John Kenneth Galbraith in Il grande crollo , i transatlantici che facevano la spola tra le due sponde dell’Atlantico erano stati dotati di sale che consentivano ai viaggiatori di continuare a comprare e vendere titoli. Oggi come allora, si respira un clima di cieca fiducia, tanto che lo scorso agosto il sito Markets Insider avvertiva, con una punta di terrore, che si stava entrando nello «stadio euforico» del ciclo, quello in cui ogni residuo di razionalità è stato smaltito.

Fortunatamente, un’analogia che già da ora si può escludere con una certa sicurezza è quella con le politiche che segnarono il Primo dopoguerra, improntate a un rigido rispetto dell’ortodossia economica. Si pensi alla Grande depressione che segnò gli Usa nel biennio 1920/21. Gli errori di allora tornano utili un secolo dopo. Nell’Eurozona è stato momentaneamente congelato il Patto di stabilità e crescita e in quello che era il regno dell’austerity non è poco. Il tanto decantato Next Generation Eu è l’idrante con cui, nell’immaginario collettivo, Bruxelles cercherà di spegnere la crisi, ma l’Unione ha fatto molto di più, consentendo ai governi europei di finanziarsi a tassi quasi ridicoli, grazie alla Bce, e di immettere enormi risorse nelle rispettive economie. È il paradosso di un’Unione europea che fa abiura e imbocca quel sentiero indicato da anni dai cosiddetti no-Euro per salvare sé stessa.

Alcuni dogmi economici sono caduti anche negli Stati Uniti dove, per ammissione dello stesso New York Times , le politiche eterodosse della presidenza di Donald Trump hanno pagato: si possono adottare politiche fiscali espansive senza far scattare automaticamente alcuna pressione inflazionistica e quindi senza provocare un rialzo dei tassi. Joe Biden sta continuando su questo sentiero keynesiano. L’ultima misura di stimolo annunciata, da 1.900 miliardi di dollari, porta a oltre 5 mila miliardi il pacchetto di aiuti varati negli Usa, e in canna forse ce n’è un’altra da mille miliardi. L’economia statunitense si prepara a un boom e con essa quella globale, che si avvantaggerebbe anche del traino cinese. Di esperimenti, però, se ne fanno anche in Gran Bretagna. Qui, all’inizio di febbraio, la Bank of England ha avvisato le banche inglesi di tenersi pronte per i tassi negativi, quelli con cui si possono prendere soldi in prestito dovendo restituire somme inferiori. Questo, per incentivare gli investimenti. Ma poi ci sono i consumi. Tuttavia, anche con i tassi sottozero le aziende non investono se non si aspettano una certa domanda e per stimolare quest’ultima la politica monetaria non basta: serve quella fiscale, l’unica che può influire sul reddito disponibile. A Washington lo sanno, come dimostrano la Trump Economy e l’attuale dibattito sul salario minimo. Pechino, poi, da anni ha ricalibrato il modello di sviluppo, puntando sul mercato interno, cioè su una enorme classe media con un buon potere d’acquisto. Il contesto è favorevole. Il reshoring , in atto da alcuni anni e accelerato dalla rottura delle supply chain, potrebbe contribuire a risollevare la domanda di aree potenzialmente ricche ma penalizzate dalla globalizzazione e dai relativi dogmi, come l’eurozona, fondata sulla compressione salariale, e quindi sulla stagnazione dei consumi e delle economie. Se questo potenziale venisse liberato, allora sì, ci troveremmo davanti a dei Venti davvero ruggenti.

Articolo pubblicato su Business People, marzo 2021