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Ricerca & Sviluppo in Italia: un bicchiere mezzo vuoto

Aumentano gli investimenti, ma il nostro Paese resta ancora fanalino di coda per stanziamenti pubblici e privati in innovazione. Il problema? Ancora la politica, che − sebbene stia muovendosi nella giusta direzione − non ha ancora risolto l’ostacolo principale per le aziende

Alla Crf di Orbassano (To), il centro di ricerche della Fiat, uno dei progetti oggi più promettenti è un modello di Panda che cammina grazie agli scarti alimentari trasformati in biometano. Ma questa innovazione non è certo l’unica in cantiere, perché la Crf detiene oggi oltre 2.500 brevetti e domande di brevetto collegate a quasi a 600 invenzioni. Grazie a questi numeri, il centro di ricerche di Orbassano è la punta di eccellenza nell’innovazione all’interno di Fca (Fiat Chrysler Automobiles), gruppo industriale che non ha certo bisogno di presentazioni e che attualmente vanta un primato: è l’azienda di origine italiana (ancora considerata tale, nonostante la sua sede legale sia all’estero) che investe maggiormente nelle attività di ricerca e sviluppo (R&S). Ad assegnarle questo primato è stata la Commissione europea, diffondendo un report molto dettagliato sui grandi gruppi industriali del Vecchio Continente che ogni anno spendono di più in R&S (dati aggiornati a inizio 2016). Prima in Italia si è piazzata, appunto, Fca, con oltre 4 miliardi di euro destinati ogni anno alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie, seguita dalla controllante Exor (1,9 miliardi circa), da Telecom Italia (1,7 miliardi) e da LeonardoFinmeccanica (oltre 1,3 miliardi investiti). Ma il dato più interessante tra quelli riportati dalla Commissione europea è che gli investimenti in innovazione delle grandi aziende della Penisola, nel biennio 2015-2016, sono cresciuti nel complesso del 10,5%, cioè a un ritmo superiore alla media continentale (7,5%). Si tratta di dati indubbiamente positivi per l’Italia, anche se vanno letti con un po’ di attenzione per non correre il rischio di farsi prendere da un troppo facile entusiasmo.

POCHI BIG NELLO STIVALEA ben guardare, infatti, l’analisi di Bruxelles ha esaminato soltanto un campione (seppur molto ampio) di grandi aziende. Si tratta delle mille maggiori società continentali, tra cui figurano appena 45 realtà italiane, contro le 117 francesi, le 217 tedesche e le 276 aziende britanniche. Non va, inoltre, dimenticato un altro aspetto: se è vero che gli investimenti in R&S delle grandi imprese del nostro Paese sono in crescita, restano comunque ben lontani da quelli dei gruppi industriali piazzatisi ai vertici della classifica stilata dalla Commissione. È il caso di Volkswagen (13,6 miliardi di euro in R&S in un anno), Daimler (6,5 miliardi), Sanofi o Astrazeneca (entrambe con 5,2 miliardi investiti). Senza dimenticare, poi, i colossi extra-europei come la coreana Samsung, le americane Intel, Alphabet e Microsoft o la cinese Huawei che spendono ogni anno in ricerca l’equivalente di circa 11-12 miliardi di euro. A parte le cifre che emergono dalle statistiche ufficiali, ci sono poi alcuni interrogativi che non vanno trascurati: escludendo i casi virtuosi delle grandi aziende, come stanno andando gli investimenti in ricerca e sviluppo nell’intero sistema Italia? Quanto spendono in innovazione gli enti pubblici o l’intera platea delle imprese italiane, comprese quelle di piccole e medie dimensioni? Su questo fronte, purtroppo, i dati degli ultimi anni non sono particolarmente incoraggianti. Per rendersene conto, basta andare a leggere le cifre pubblicate dall’Istat e dall’Eurostat o da organismi internazionali come l’Ocse, rielaborati puntualmente dall’Airi (Associazione italiana per la ricerca industriale).

INNOVARE DA SOLI O MORIRE

RISORSE A SINGHIOZZOOgni anno, secondo le statistiche, la spesa italiana complessiva in R&S supera di poco i 20 miliardi di euro e corrisponde all’1,3% circa del pil, una quota di gran lunga inferiore a quella della Germania (2,87%), della Francia (2,23%), del Regno Unito (1,7%) e alla media dell’Unione europea (attorno al 2%). Inoltre, il nostro Paese risulta essere il fanalino di coda a livello continentale (o quasi) sia per gli stanziamenti pubblici in R&S, sia per quelli delle aziende private. La ricerca finanziata con risorse statali, infatti, assorbe annualmente circa 8 miliardi di euro, meno di un terzo che in Germania o in Giappone e quasi la metà rispetto alla Francia e al Regno Unito. Anche le imprese, però, in generale non sono particolarmente munifiche su questo fronte. A Sud delle Alpi, infatti, solo il 46% degli investimenti complessivi in ricerca vengono finanziati da società ed enti privati, mentre negli altri Paesi industrializzati la quota varia tra il 55 e il 75%. Se la pubblica amministrazione è molto avara con la ricerca, insomma, anche il settore privato sembra comportarsi più o meno allo stesso modo. Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, l’associazione aderente a Confindustria e rappresentativa delle imprese farmaceutiche italiane, invita però a evitare i luoghi comuni e a non fare di ogni erba un fascio. Scaccacabarozzi snocciola infatti diversi dati e cifre che dimostrano come il suo settore abbia ben poco da rimproverarsi, se i finanziamenti alla ricerca nel nostro Paese sono più bassi della media continentale. «Le aziende farmaceutiche in Italia nel 2015 hanno investito 2,6 miliardi di euro di cui 1,4 miliardi sono destinati alle attività di R&S», afferma Scaccabarozzi, «e ben 700 milioni vanno soltanto agli studi clinici». Non a caso, la farmaceutica è diventata da tempo uno dei settori trainanti dell’economia italiana, il primo comparto industriale per produttività con 64 mila addetti, di cui il 90% sono laureati e diplomati, mentre l’export è cresciuto del 57% tra il 2010 e il 2015 e rappresenta circa il 70% del fatturato. Oggi, inoltre, l’industria farmaceutica in Italia è seconda in Europa alle spalle di quella tedesca per produzione e ha buone chance di salire al primo posto in tempi brevi. «Tra le 50 big spender, cioè le aziende che investono di più nel mondo in ricerca e sviluppo», aggiunge ancora Scaccabarozzi, «ben 17 appartengono al nostro settore».

BONUS DELLA SPERANZAAnche Roberto Snaidero, presidente di FederlegnoArredo, associazione di categoria rappresentativa del l’industria del mobile e dell’arredamento, come Scaccabarozzi difende le aziende della sua categoria. «Il legno-arredo italiano è in Europa probabilmente quello che ha investito di più in ricerca e sviluppo», dice Snaidero, «questo atteggiamento è presente nel suo dna ed è uno dei fattori più importanti che gli permette di competere a livello internazionale». Per il presidente di FederlegnoArredo, però, c’è bisogno di un passo in più: «Vogliamo continuare a investire tempo e risorse, incrementando ad esempio la collaborazione con i centri di ricerca e con i poli universitari», aggiunge Snaidero, «abbiamo un patrimonio di conoscenze e competenze su materiali, tecnologie e macchine automatiche che va messo sempre più a sistema e la politica ci deve aiutare su questo punto». È proprio il ruolo svolto dalla politica il grande interrogativo che la ricerca made in Italy si trova oggi di fronte. Le risorse pubbliche a disposizione, si sa, sono assai risicate. Da un po’ di anni a questa parte, tuttavia, i governi avvicendatisi a Palazzo Chigi hanno iniziato a puntare sugli sgravi fiscali contenuti nel Bonus Ricerca, introdotto nel 2013 con il decreto Destinazione Italia e potenziato nei anni successivi, soprattutto con la legge di Stabilità 2017. In particolare, grazie a questa agevolazione, le imprese italiane di qualsiasi settore godono fino al 2020 di un credito d’imposta pari al 50% delle spese sostenute per le attività di R&S, comprese le spese del personale, con una soglia minima di 30 mila euro e un tetto massimo di 20 milioni da ripartire in quattro anni.

ZAVORRATI DALLA BUROCRAZIABasteranno queste misure a far crescere finalmente gli investimenti nella ricerca made in Italy? Per le associazioni di categoria non è facile dare una risposta. La pensa così Snaidero che, oltre al Bonus Ricerca, ricorda altri interventi fiscali adottati a favore del suo settore come il Bonus Arredi o le detrazioni per le ristrutturazione edilizie o per l’efficientamento energetico (Ecobonus) che hanno il merito di aver impresso un’inversione di tendenza rispetto alla crisi degli anni scorsi. Per Snaidero, speranze incoraggianti arrivano anche dall’avvio dei programmi per l’Industria 4.0 «che», dice il presidente di FederlegnoArredo, «rappresentano per noi l’opportunità di dare un valore aggiunto alle aziende se verranno sfruttati adeguatamente». Tuttavia, pensare di colmare tutti i ritardi della ricerca italiana usando soltanto la leva fiscale per Snaidero è un po’ un’illusione. Il problema principale, secondo diverse associazioni di categoria, è come sempre la burocrazia italiana, troppo farraginosa ed elefantiaca, capace di tarpare le ali alle aziende anche quando vogliono fare investimenti in ricerca e sviluppo. Negli ultimi anni abbiamo visto indubbiamente segnali incoraggianti», continua Snaidero, «c’è maggiore attenzione all’industria, ci sono più investimenti per renderla più competitiva all’estero è soprattutto c’è una maggiore consapevolezza delle istituzioni sul ruolo centrale delle imprese nel percorso di rilancio del nostro Paese». Tuttavia, per il n. 1 di FederlegnoArredo esiste ancora una situazione strutturale in cui le imposte e la burocrazia rendono davvero la vita difficile agli imprenditori, «e li rendono dei veri e propri campioni». Più o meno dello stesso parere è il presidente di Farmindustria Scaccabarozzi, che sottolinea come le imprese del suo settore fino a qualche anno fa dovessero confrontarsi con un quadro di regole incerte, che mutavano nel tempo e che costringevano le aziende ad affrontare costi inaspettati. «Ora il clima è cambiato», dice però Scaccabarozzi, «e anche grazie alle misure promosse dal governo e dal ministro della Salute – come ad esempio l’aumento del Fondo Sanitario Nazionale o i fondi per i medicinali innovativi – si respira un’aria pro innovation. L’Italia ha tutte le carte in regola per fare il salto di qualità ed essere sempre più attrattiva e competitiva. È un’occasione storica da non perdere».