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Money transfer, quel business oscuro che impoverisce la nostra economia

Dopo un’indagine della procura di Roma, il Garante della Privacy ha multato per 11 milioni di euro cinque società capaci di far “sparire” i soldi

Altro che rimesse di denaro ai parenti a casa. I servizi di Money transfer si sono trasformati in agenzie di sparizione del denaro. Tutto è partito dalle indagini della Procura di Roma, che ha accertato come una multinazionale con l’aiuto di quattro società fosse in grado di raccogliere e trasferire in Cina somme di denaro riconducibili a imprenditori asiatici violando nome antiriciclaggio e sulla protezione dei dati personali.

Per accontentare i clienti, infatti, le società facevano sparire i soldi frazionandoli in migliaia di piccoli trasferimenti attribuiti a ignari – o persino deceduti – clienti. I dati di questi ultimi venivano utilizzati in modo illecito per rendere così impossibile l’associazione tra i capitali e i reali mittenti, compilando moduli fantasma. Il sistema ha permesso di mettere in piedi una frode fiscale miliardaria.

Proprio questo aspetto ha permesso al Garante sulla privacy di multare per 11 milioni di euro complessivi le cinque società. La sentenza ha ricevuto il plauso dello Iapp, l’International Association of Privacy Professionals, che l’ha definita «una delle più importanti tra le recenti in materia di protezione dei dati personali». Ma ha permesso soprattutto di far luce su un lato oscuro della nostra economia, il flusso di denaro che esce nel nostro Paese per finire all’estero, in Cina o in paradisi fiscali alimentando l’evasione e il riciclaggio di denaro sporco.

I NUMERI. Difficile avere un quadro chiaro del fenomeno. Le agenzie di money transfer sono passate dalle 687 del 2002 alle 34 mila del 2010, superando persino gli sportelli delle Poste Italiane. Secondo la Guardia di finanza, che effettua appena 26 ontrolli all’anno, le rimesse all’estero nel 2015 hanno superato il tetto dei 5,3 miliardi; erano 7,4 nel 2011. La Romania è stato il primo Paese destinatario (16,1%), seguito appunto dalla Cina (10,6%) e dal Bangladesh (8,2%).