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A tutta birra!

Il mondo della “bionda” italiana è quanto mai vitale grazie all’export e al fenomeno dei microbirrifici, ma produzione e consumi sono fermi a causa dell’altissima pressione fiscale, che favorisce vino e superalcolici. Eppure con meno tasse, si potrebbe scoprire la ripresa nascosta in fondo al boccale

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«Un boccale di birra è un pasto da re», parola di William Shakespeare (Il racconto d’inverno). Peccato che in Italia l’aforisma del tragediografo inglese sia stato preso un po’ troppo alla lettera dai responsabili istituzionali che, dall’ottobre 2013 al gennaio 2015, hanno rialzato ben tre volte le accise su pinte e boccali facendo schizzare pressione fiscale e prezzi al consumo. Un terremoto per il settore al quale si affianca la prossima sfida globale che attende questo mercato: la super-acquisizione dell’anglo sudafricana SabMiller – seconda azienda del settore che aveva fallito l’assalto a Heineken – da parte del leader del segmento, la multinazionale brasiliana con sede in Belgio Ab Inbev.

HEINEKEN ITALIA

BIRRA FORST

Quando la trattativa da 107 miliardi di dollari andrà definitivamente in porto, al termine del lungo processo di contrattazione con le autorità antitrust dei Paesi coinvolti, creerà un gruppo titolare del 30% del mercato. Si tratterà di un colosso però in un mondo di giganti, se si considera che già oggi oltre la metà delle birre vendute sul pianeta fa capo ad appena quattro aziende (Heineneken è al terzo posto, Carlsberg al quarto). «È una situazione tipica nel mercato delle bevande», commenta Tiziano Terzaghi, direttore di Assobirra, «le dimensioni aiutano a offrire prodotti a costi inferiori, ma negli anni l’offerta birraia non è mai diminuita. Anzi, in Italia è cresciuto il numero di etichette internazionali presenti. E invece di importarle, adesso le produciamo anche».

FANTASIA TRICOLORE Non solo, c’è anche un lievito insospettabile e del tutto autoctono nel microcosmo italiano delle bionde: se nel mondo si va sempre più verso le concentrazioni, il Belpaese è sempre più la patria dell’artigianalità, dei microbirrifici e dei brew pub (i locali che vendono direttamente ciò che producono). Dal 2005 al 2014 le miniproduzioni sono più che quintuplicate: a fronte di 16 stabilimenti industriali – 14 di birra e due di malto – sono spuntate quasi 700 realtà artigianali che occupano circa 2 mila addetti. E solo la pressione fiscale ne ha frenato la crescita ulteriore. «I 650 artigiani producono otto-nove birre l’anno, cioè 7 mila varietà a cui si aggiungono le 160 delle 78 grandi aziende: l’unica caratteristica comune è la fantasia», spiega il direttore di Assobirra, «perché avendo una tradizione più recente rispetto ad altri Paesi – la prima birra italiana “moderna” risale al ‘700 – possiamo concederci di sperimentare, usando prodotti zuccherini diversi dal malto d’orzo e vicini alle tradizioni locali: castagne, farro, frutta. E sono stati gli italiani poi a riproporre il Radler, cioè la birra mischiata con succhi, andando oltre la solita accoppiata con la limonata per introdurre abbinamenti con chinotto, pompelmo ecc.».

Benché il “nettare di luppolo” sia presente nel nostro Paese sin dai tempi dei Romani – che importarono i primi birrai dalla Britannia – e nonostante sia tricolore anche la paternità della tradizione della birra d’abbazia (la prima è attestata a Montecassino nel VII secolo d.C.), gli italiani ne hanno sempre associato il consumo solo al pasto, in particolare in accompagnamento alla pizza più che alla fantozziana «frittatona di cipolle». Oggi il mercato “fuori casa” rappresenta così solo il 42,6%, nonostante tante storiche campagne pubblicitarie abbiamo provato a cambiare questo immaginario: dalla storica “Chi beve birra campa cent’anni” del 1929, all’indimenticabile “Bionda o bruna, purché sia birra” con Anita Ekberg e Mina a dividere il Paese negli anni ’50. Il claim più memorabile dell’era moderna è “Birra… e sai cosa bevi”: parola di Renzo Arbore, uno dei tanti testimonial (Elena Sofia Ricci, Roberto Mancini, Gilberto Benetton, Vittorio Sgarbi, Milly Carlucci, Philippa Lagerback) che negli anni ’90 si sono alternati sullo schermo, pinta in mano. Grazie a questi volti famosi era arrivato il secondo e ultimo boom della storia del settore dopo quello degli anni ’70, l’epoca delle bellone: in primis Solvi Stubing, quella di “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”.

UN PEZZO DI STORIA Queste campagne hanno spesso fatto l’occhiolino al pubblico maschile – tanto che oggi sette consumatori su dieci dicono di amare il luppolo – ma la Penisola si aggiudica invece un primato forse insospettabile: quello della penetrazione nel pubblico femminile. Circa il 60% delle italiane consuma birra abitualmente (+125% in 30 anni), anche se fin troppo “responsabilmente” (una volta al mese, 14 litri annui pro capite). «Forse pensano erroneamente alla dieta, ma la birra è tra tutte le bevande alcoliche quella con il minor apporto calorico», sorride Terzaghi di Assobirra che per promuovere il consumo di lager, ale e stout ora punta sull’abbinamento con il mondo del mangiar bene (Gambero rosso ecc.). Come in tutti i Paesi mediterranei, però, resta preponderante la stagionalità nei consumi: circa il 44% dell’intera produzione viene venduto tra giugno e settembre, a differenza dei Paesi del Nord Europa che sono più costanti. «L’ultima estate molto calda, infatti, ha rimediato a un inizio anno negativo portandoci a un +2% circa rispetto al 2014», aggiunge il direttore di Assobirra (Associazione degli industriali della birra e del malto, fondata nel 1907). «Se il mondo dei locali ci aiutasse a raggiungere gli stessi livelli di consumo della Spagna durante l’aperitivo, aumenteremmo le vendite almeno del 30%. Ma servono pratiche commerciali più coerenti: al ristorante la stessa bottiglia di birra non può costare quattro-cinque volte più che al supermercato».

Per ora, a fronte di un consumo ai minimi in Europa (29,2 litri pro capite), il Belpaese è al decimo posto in Europa per produzione (+2% nel 2014, meglio di forti consumatori come Austria, Danimarca e Irlanda) e continua a riscuotere grande successo all’estero: +3,5% di export l’anno scorso, per un totale che sfiora i due milioni di ettolitri (nel 2002 erano 600 mila) a fronte di sei milioni di importazioni, dirette in particolare nel Nord Italia. Il mercato più interessante è il Regno Unito, dove finisce oltre il 50% del prodotto tricolore. La birra, infatti, è uno dei prodotti in maggiore espansione sull’onda della globalizzazione del gusto. Lo raccontano i dati del Barth Report, la Bibbia del settore. Benché il 2014 sia stato il primo anno di calo globale dal 1992, ha confermato il nuovo equilibrio mondiale che vede la Cina come primo Paese produttore (con tre aziende di Pechino nella top ten dei player), seguita da Stati Uniti, Brasile e, solo quarta, la Germania. Le proporzioni si confermano nella classifica per continenti, con l’Asia che stacca l’America e la vecchia Europa, mentre l’Africa continua a crescere al ritmo del 5%. Insomma, in tutto il mondo la birra conquista mercato e appassionati.

Ma che cosa frena l’esplosione del settore in Italia? Una zavorra chiamata accise, sostiene Assobirra raccontando l’impennata della tassazione: +118% dal 2002 a oggi, e aumento del 30% in appena 15 mesi con tre rialzi consecutivi. Sul formato-tipo, la bottiglia da 66 cl venduta al supermercato al prezzo di un euro, il prelievo statale arriva così a 46 centesimi: ma su 4 miliardi complessivi di trasferimenti allo Stato tra Iva, tasse, contributi e imposte sui redditi, le accise rappresentano “solo” 548 milioni di euro. Un peso che ha pochi eguali in Europa – pari a quattro volte quello della Germania e a tre volte la Spagna (solo in Nord Europa c’è di peggio) – e che stride con la concorrenza del vino, tax-free, e dei superalcolici, sui quali le imposte sono inferiori alla media Ue. «Abbiamo la stessa tassazione sulla birra della Danimarca, mentre sui superalcolici siamo sui livelli dell’Europa dell’Est», è il paradosso sottolineato da Filippo Terzaghi: «Una stima di Doxa dice che un ritorno alla vecchia tassazione porterebbe l’assunzione di 2.800 persone, mentre con accise a livello tedesco il 60% delle aziende aumenterebbe il personale». Assobirra ha anche lanciato una petizione, Rivogliolamiabirra, che ha raccolto oltre 120 mila firme, ma senza risultati. E intanto cresce il fenomeno delle esportazioni in nero. Se, insomma, il solito Shakespeare faceva al suo Enrico V «per un sol boccale di birra la mia fama tutta darei», vuol dire che in fondo a una pinta di bionda si nasconde davvero un tesoro per tutta l’economia italiana. Basta assaporarla per capirlo.

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