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Export urrà!

La moda italiana è uno dei settori che contribuisce maggiormente alla formazione del nostro saldo commerciale. Il segreto? L’aver conservato l’intera filiera produttiva, e l’aver ampliato le aree di distribuzione verso Stati Uniti, Cina/Hong Kong e Russia

Il diavolo veste Prada, non Jimmy Choo, e Richard Gere in American Gigolo sceglie l’outfit del giorno tra giacche di Armani, non di Ralph Lauren. Non è un caso. E non è da sottostimare neppure il fatto che sia la moda italiana il filo che unisce questi due blockbuster, a trent’anni anni di distanza l’uno dall’atro. L’italian style come simbolo di eleganza è un fatto riconoscito nel mondo, a cominciare proprio da Hollywood. Agli occhi degli stranieri il made in Italy resta infatti, ancora sinonimo di elevata qualità del prodotto, design attraente, precisione, funzionalità e tecnica. Eppure l’intero settore sopravvive grazie all’export e alla produzione italiana per l’estero (secondo le stime degli esperti il 60% dell’haute couture francese è prodotto all’interno dei nostri confini). Mentre il grande circo della moda è ripartito con Pitti Uomo prima e le sfilate maschili milanesi poi, vale la pena soffermarsi su alcuni punti che definiscono il settore, vero e proprio pilastro del Pil nazionale e, soprattutto, emblema dell’Italia quanto la Nazionale di calcio e il Festival di Sanremo. Anche se ormai molte proprietà, e tra queste Loro Piana e Brioni (cedute la scorsa estate rispettivamente a Lvmh e Kering) non parlano più neppure italiano.

RISULTATI OLTRE CONFINE

60% è la quota di haute couture francese prodotta in Italia

43 miliardi è la quota del fatturato globale del 2012 rappresentato dalle esportazioni

78 miliardi è il fatturato del sistema moda italiano nel 2012

15 miliardi è il surplus (export-import) nel 2012

DI BENE IN MEGLIO

3% è l’evoluzione positiva registrata dalle esportazioni nei primi otto mesi del 2013

46 miliardi di euro è la stima relativa al 2013 per l’export moda

20 miliardi è l’avanzo commerciale stimato per fine 2013

8,3% è la quota totalizzata di recente dalle esportazioni verso Cina/Hong Kong

UN’ECCELLENZA DA DISTRETTIÈ piuttosto complesso definire il perimetro della moda italiana. Dato per assodato che l’abbigliamento è compreso in toto (dalle calze ai cappelli), è anche vero che scarpe, borse e accessori, primi fra tutti gli occhiali, definiscono l’italian style, allo stesso livello di un’immagine del Colosseo. In tutti questi settori infatti l’Italia, grazie a un tessuto economico costituito da molte piccole e medie imprese (eredi delle tradizionali botteghe rinascimentali) localizzate in un ambito territoriale circoscritto (ovvero i cosiddetti distretti), ha raggiunto vertici di eccellenza riconosciuti nel mondo grazie all’elevata specializzazione e alla qualità del prodotto, percepita di un livello superiore rispetto a quella dei concorrenti stranieri. In tutta la Penisola, secondo i dati dell’Osservatorio distretti, ci sono 39 distretti produttivi attivi nell’ambito dell’abbigliamento-moda: dall’occhiale di Belluno ai setifici comaschi al cashmere del Perugino, fino al pellettiero di Castelfiorentino o della Valdarno. In questo scenario è difficile dare dei numeri precisi, le competenze della filiera spesso sono trasversali ai settori. In ogni caso l’Osservatorio conta 174 mila imprese manifatturiere, presenti nei distretti tricolori con oltre 1,2 milioni di persone impiegate. «Il fatturato del sistema moda italiano (tessile, abbigliamento, filiera della pelle) è stimato a circa 78 miliardi di euro, di cui il 55% (43 miliardi) rappresentato da prodotti esportati», spiega a Business People Gregorio De Felice, Chief Economist di Intesa Sanpaolo, per poi aggiungere: «La moda italiana è uno dei settori che contribuisce maggiormente alla formazione del nostro saldo commerciale: nel 2012 il surplus (export – import) è stato pari a oltre 15 miliardi. Se ci confrontiamo con i due maggiori competitor europei, osserviamo che la Francia registra un deficit di 11 miliardi e la Spagna di 3,2». Un fatto questo che evidenza come la forza del nostro sistema risieda soprattutto nell’aver conservato l’intera filiera produttiva.

«Le nostre esportazioni determinano circa il 50% del fatturato (119 milioni nel 2012, 135 milioni stimati nel 2013)», dichiara a Business People Adriano Aere, fondatore insieme alla moglie Emilia Giberti, di Imperial, brand nato nel 1978, caratterizzato da uno stile funzionale e dall’alto contenuto fashion contemporaneo, che oggi può contare su 80 monomarca sparsi nel mondo. E il mondo è il traguardo dell’imprenditore che ha l’obiettivo «di imporsi sempre di più all’estero mantenendo comunque una base solida in Italia». La formula di Imperial si può riassumere, a giudizio di Aere, nell’espressione fast fashion made in Italy. «Ci siamo imposti sul mercato grazie a un prodotto che unisce alla qualità, un prezzo competitivo», spiega l’imprenditore che poi aggiunge: «Produciamo tutto in Italia, utilizzando una filiera che ci segue da oltre 30 anni e grazie al nostro modello di business, la quick strategy, riusciamo a realizzare collezioni uomo e donna con i nostri marchi, Imperial e Please, in tempi brevissimi. Quindici giorni è il tempo che intercorre fra l’ideazione e la messa in vendita delle collezioni: 90 persone che impiegano all’anno circa 5 milioni di metri di stoffa e realizzano collezioni da 6 milioni di capi circa, rinnovate settimanalmente e vendute per il 50% all’estero. L’azienda bolognese esporta principalmente verso i Paesi del Nord Europa (Olanda, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia) e verso le repubbliche dell’ex Unione Sovietica (circa il 15% del fatturato). «L’azienda ha messo in atto una strategia dedicata ai Paesi del Mediterraneo aprendo una piattaforma a Catania in grado di garantire un collegamento diretto con quest’area», commenta il manager sottolineando anche l’interesse per Asia e Nord America»

VERSO NUOVE FRONTIERECon il mercato interno che arranca, il sistema moda è stato salvato negli ultimi anni dall’export. Soprattutto quello extra europeo, che presenta ritmi di crescita entusiasmanti. E gli esperti assicurano: continuerà così anche in futuro. Nel 2013, infatti, «l’export, atteso oltre i 46 miliardi di euro, si rivelerà ancora una volta l’unico driver della crescita del sistema moda: l’avanzo commerciale della moda italiana potrà sfiorare quota 20 miliardi di euro, grazie soprattutto alla forza della filiera integrata del made in Italy e al patrimonio di conoscenze della subfornitura locale», spiega l’esperto di Intesa Sanpaolo. I principali sbocchi commerciali della moda risultano Francia e Germania, con un peso rispettivamente dell’11,6% e del 9,3%. Negli ultimi anni si è aggiunta la Svizzera (al 7,3%), grazie alla presenza sul territorio elvetico dei centri logistici delle griffe francesi che producono in Italia. Seguono gli Stati Uniti (con un’incidenza pari al 6,8%), mentre acquistano una crescente rilevanza i mercati asiatici; a iniziare dalla Cina, dove il made in Italy gode di un successo crescente. «Se, infatti, sommiamo le esportazioni italiane dirette in Cina e a Hong Kong si raggiunge un peso dell’8,3%, facendo di quest’area il nostro terzo sbocco commerciale», ricorda l’economista di Intesa che poi segnala “l’ottimo posizionamento” della moda italiana raggiunto in Russia, settimo mercato di sbocco con un peso al 5,1%. Quanto al 2013, «i dati relativi ai primi otto mesi evidenziano un’evoluzione positiva per il totale delle esportazioni: +3%, con una dinamica più sostenuta per Stati Uniti, Cina/Hong Kong e Russia». Il peso crescente delle nuove frontiere dell’export del lusso tricolore è chiaramente evidenziato da uno studio di Pambianco, che analizza i dati dell’export tra il 2003 e il 2012. In questo arco temporale la Cina ha messo a segno un vero e proprio rally, pur mantenendo ancora un buon spazio di crescita (il valore del mercato si attesta a 680 milioni +1.493% rispetto al 2003), bene anche l’ex Urss (+116% a 578 milioni) e il Medio Oriente (+101% a 578 milioni). E il trend dovrebbe proseguire in futuro anche nelle stime di De Gregorio: «Nei prossimi anni i mercati di sbocco a più alto potenziale saranno ancora Cina, Russia e Stati Uniti con un ruolo crescente anche per le destinazioni del Medio Oriente». Più in dettaglio Sace stima, tra il 2013 e il 2016, un tasso di crescita media annua della moda tricolore nei Paesi emergenti pari 8,3% all’anno, decisamente meglio rispetto al +4,8% delle economie avanzate che tuttavia continueranno a registrare i volumi più elevati. Per l’abbigliamento in particolare il rapporto di Sace segnala, per il futuro, due nuove frontiere: Indonesia e Corea del Sud, senza dimenticare i Paesi dell’Europa emergente come la Romania.

«Esportiamo prodotti di storia, cultura, lifestyle italiano. Tutti prodotti del vero made in Italy che hanno chance nei mercati internazionali», esordisce Renato Curzi numero uno di Linea Marche, il gruppo di Piticchio di Arcevia (Ancona) a cui fanno capo i brand Vic Matiè, Vic, Oxs e Rubber Soul. Curzi ha gestito la metamorfosi del gruppo, da piccolo calzaturificio marchigiano, leader nella scarpe di sicurezza per il lavoro, a brand emblema dell’italian way of life con 400mila paia di scarpe vendute all’anno e il 75% del fatturato generato all’estero. «Esportiamo tutti i prodotti dei nostri brand perché noi facciamo quel made in Italy che per un match di qualità e caratteristiche inimitabili sono appetibili e interessanti nei mercati mondiali». L’imprenditore elenca poi, “in sequenza”, i mercati principali per l’export: Europa, Usa, Cina, Middle East e Giappone. Quanto al futuro, Curzi vede un fatturato generato per il 50% in Europa, e per la parte restante fuori dal Vecchio Continente. Comunque vada l’imperativo è mai abbandonare l’Italia: «I marchi devono avere forte identità, unicità, incarnare l’eccellenza e rimanere sempre forti nel mercato di origine e in quello europeo».

PELLE SUPERSTARAbbigliamento e pelle ormai giocano alla pari nelle esportazioni. Dei 43 miliardi di export, come ricorda De Gregorio, 17 derivano dall’abbigliamento, 16,5 dai prodotti della filiera della pelle e 9,5 dai prodotti tessili. Va in effetti sottolineato il boom della nostra pelletteria. Nella filiera della pelle, infatti, le esportazioni sono passate dai 3 miliardi del 2010 ai 4,8 del 2012, e non si sono ancora fermate. Anche nel 2013 il comparto sta viaggiando su un ritmo intorno all’11%, che conferma questi prodotti come i campioni del made in Italy. Più in dettaglio, secondo gli ultimi dati Smi, l’export nella moda donna ha visto protagonista l’abbigliamento in pelle (+6,7%), mentre hanno registrato tassi di crescita più modesti il vestiario esterno (+1,6%), la maglieria (+3,1%) e la camiceria (+2%). Per l’uomo a vincere è vestiario esterno (+5,1%), seguito da maglieria (+3,2%), abbigliamento in pelle (+2,8%) e camiceria (+0,5%). Male invece le cravatte (-1,5%). L’export della pelletteria è dominato, secondo i dati Aimpes, dalle borse da donna che, grazie alla forte domanda, arrivano a generare il 65% del giro d’affari estero, un altro 20% circa è generato dalla piccola pelletteria, e la parte restante da cinture, valigie e infine cartelle di lavoro.

Per la maison, specializzata in abiti da cerimonia, le esportazioni rappresentano, almeno in parte, ancora una sfida. Al momento infatti, come spiega il suo fondatore, si attestano solo al 20% del giro d’affari e coinvolgono prevalentemente Europa e Giappone, «dove il gusto e le peculiarità della mia moda sono molto apprezzati. Ma puntiamo ad aumentare questa percentuale in quanto riteniamo di avere ancora importanti potenzialità da sviluppare», spiega lo stilista. Per poi aggiungere: «In questo momento così delicato stiamo cercando di potenziare le vendite all’estero, sviluppando e cercando nuovi contatti commerciali». Anche se chiaramente, puntualizza, «occorre valutare la ricettività di nuovi mercati». Per vincere anche oltreconfine, l’imprenditore punta «sulla valorizzazione del vero made in Italy e su tutte le peculiarità che ne concernono. Valori imprescindibili come la sartorialità, la cura del dettaglio, l’altissima qualità dei tessuti, la ricerca rappresentano il punto di forza per ottenere dei risultati all’estero, come in Italia».

In questo scenario dove l’export è sempre più determinante, le aziende italiane per rimanere competitive, «devono costruire progetti di sviluppo, forti, credibili e orientati sui mercati internazionali, tenendo conto ovviamente dei cambiamenti che i mercati stanno vivendo», spiega a Business People David Pambianco, vicepresidente dell’omonima società di consulenza. In particolare, aggiunge il manager, i mercati emergenti registrano tassi di sviluppo elevati, chiedono prodotti di qualità, marchi noti, forti investimenti in comunicazione, una politica di aperture di negozi diretti o in joint venture con partner locali. Quelli europei crescono poco, hanno una redditività bassa, sono affollati di concorrenti, ma rappresentano volumi elevati. «La sfida è globale e, per di più, passa dal web», conclude Pambianco. Quanto alla tipologia di prodotti la parola d’ordine, soprattutto per i nuovi milionari dei Paesi emergenti, sono elevata qualità, sia in termini di lavorazione che di materiali utilizzati, esclusività, brand affermati e alto di gamma. Insomma, lusso estremo a scapito del prodotto di medio livello, che verrà sempre più spesso prodotto localmente.

«Confrontarci con i mercati internazionali è la nostra sfida per crescere e fare il salto dimensionale. Per andare all’estero avevamo bisogno di solidità. Per questo abbiamo deciso di quotarci sull’Aim in Italia», dichiara Andrea Tessitore, a.d. di Italia Indipendent, specializzata nell’occhialeria ma attiva sull’intera gamma del lifestyle. «L’Italia alla fine dei primi nove mesi del 2013 pesava poco più del 60%, un ottimo risultato se si pensa che solo a fine 2011 costituiva l’85% del fatturato», aggiunge il manager che spiega poi come la società sia cresciuta in Europa, soprattutto in Francia e Spagna, ma anche nei Paesi extra Ue, vedi Middle East, Thailandia, Giappone e sud America. «Anche gli Usa, primo mercato al mondo per l’occhialeria, hanno iniziato nel primo semestre 2013 a contribuire ai ricavi del gruppo e oggi costituiscono il 4,1%», evidenzia Tessitore, il quale conta di conquistare gli States con «un prodotto che sia un must have, grazie alle sue caratteristiche di unicità e distintività, ma che mantenga al contempo un prezzo che si collochi nel segmento dell’affordable luxury, in media sui 150 euro». Quanto al futuro: «Apriremo nuovi punti vendita dove riteniamo strategico rafforzare la nostra presenza per penetrare il canale wholesale. Daremo priorità alle piazze di New York, Miami, Parigi e Tokyo, Londra e Barcellona. Inoltre, stiamo lavorando a diversi contratti di distribuzione in Asia Pacific e Sud America». E poi ci si sta concentrando «sull’asian fitting e su prodotti specifici per gli Usa. Cerchiamo di adattare la nostra offerta ai gusti e dei consumatori locali».

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Se è vero che i consumi perdono terreno in patria, è altrettanto veroche le eccellenze italiane in fatto di moda e abbigliamento stanno registrando perfomance sempre più interessanti all’estero. Con un’accelerazione soprattutto nei territori extra Ue