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Cosa resta della grande industria

Non si vive di sole pmi. Se molti nomi noti sono ormai scomparsi o finiti in mani straniere, c’è uno zoccolo duro di imprese che resiste e può fare molto per il rilancio del sistema-Italia. Ecco quali sono

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La scomparsa dell’Italia industriale. Così, nel “lontano” 2003, il noto sociologo Luciano Gallino titolò un breve saggio pubblicato con Einaudi, in cui tracciava un quadro impietoso dell’economia del nostro Paese. Gallino descriveva una nazione che, dal 1960 in poi, ha perso quasi interamente la propria capacità produttiva, a causa di un fenomeno molto graduale, ma preoccupante: la moria inarrestabile di grandi industrie, che ha portato al di fuori dei confini della Penisola alcuni settori strategici e irrinunciabili per l’intero sistema Paese come la chimica, l’informatica, il comparto aeronautico e quello dell’alta tecnologia. Montedison, Snia Viscosa, Anic, Enichem, Olivetti, Fiat Ferroviaria, Fiat Avio o Nuovo Pignone: sono alcuni dei nomi, più o meno noti, che vengono citati nell’opera di Gallino come esempi di grandi agglomerati industriali ormai scomparsi del tutto, o quasi, oppure finiti irrimediabilmente in mani di gruppi stranieri, che ora hanno il potere di deciderne le sorti. Un Paese che vive questa emorragia di grandi aziende manifatturiere, secondo il noto sociologo, rischia di assumere i caratteri di una vera e propria “colonia” in cui le multinazionali estere, oltre a decidere «cosa produrre e a quali prezzi produrre», possono avere carta bianca sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro e sulle retribuzioni.

C’È CHI INVESTE ANCORAA distanza di dieci anni dalla pubblicazione del saggio di Gallino, l’analisi dell’autore appare quanto mai attuale, almeno a giudicare dai numeri: in tutta la Penisola, infatti, le aziende con più di 500 addetti oggi sono ormai meno di 1.600, in calo di circa l’8% tra il 2011 e il 2013, mentre l’organico medio delle imprese italiane resta ancorato al di sotto dei quattro dipendenti, contro i 12 della Germania, gli 11 circa del Regno Unito e gli oltre sei della Francia. Tuttavia, è ancora presto per parlare, come fece a suo tempo Gallino, di una vera e propria scomparsa dell’Italia industriale. A ben guardare, le grandi imprese nel nostro Paese esistono ancora, eccome. Ne sa qualcosa Federico Pirro, docente di storia dell’industria all’Università di Bari e autore di diversi saggi sull’economia del Sud Italia. È proprio nel Mezzogiorno, e non solo al Nord, che la presenza e gli investimenti delle aziende medio-grandi rappresentano la linfa vitale di un tessuto produttivo che mantiene tuttora grandi potenzialità, nonostante la crisi economica dell’ultimo quinquennio. Nelle regioni meridionali, per esempio, esistono ancora una ventina di stabilimenti con più di mille addetti ciascuno, che danno lavoro complessivamente a quasi 60 mila persone, dall’Ilva di Taranto (la fabbrica siderurgica più grande d’Europa) a quelli del gruppo Fiat a Melfi, Pomigliano d’Arco o a Chieti, dove la casa automobilistica torinese è presente con la Sevel, una joint venture realizzata coi francesi del gruppo Psa. Senza dimenticare gli insediamenti produttivi dell’Eni a Gela, della Saras (la società petrolifera dei Moratti) a Cagliari, della multinazionale dei microchip StMicroelecrtonics a Catania o quelli in provincia di Napoli della Alenia Aermacchi, specializzata nella produzione di velivoli a uso civile e militare.Certo, non basta la presenza di tutte queste imprese, che pure non sono poche, a risolvere i problemi del Sud e dell’Italia intera. Tuttavia, va ricordato che molte grandi aziende, nel Mezzogiorno e nelle isole, continuano a fare investimenti importanti. Lo stesso Pirro ne ha ricordato alcuni, in una relazione presentata nell’ottobre scorso, durante un convegno organizzato dalla Fondazione Edison e dall’Accademia dei Lincei: dal rigassificatore dell’Enel a Porto Empedocle (Ag), che vale da solo 800 milioni di euro, si arriva sino agli 1,8 miliardi che Alenia Aermacchi intende stanziare tra Pomigliano d’Arco (Na) e Foggia. Un altro esempio di investimenti delle grandi imprese, tra i tanti ricordati da Pirro, è quello di 600 milioni programmato a Porto Torres (Ss) da Versalis (società del gruppo Eni) che in Sardegna, ma anche nel sito veneto di Marghera (Ve), vuole sviluppare la chimica verde, cioè la produzione di composti e materie plastiche da fonti biologiche e rinnovabili.

RICAVI MILIARDARIDove ci sono le condizioni giuste, insomma, la grande industria non si tira indietro e continua ancora a fare investimenti in Italia. Certo, esistono realtà problematiche come l’Ilva di Taranto che si muove nel pantano di una crisi senza precedenti per la siderurgia italiana. Allo stesso tempo, però, esistono anche altri gruppi con migliaia di addetti che non se la passano poi tanto male. Nel nostro Paese, per esempio, ci sono ancora due colossi del settore dei trasporti marittimi e delle crociere come Msc e il gruppo Grimaldi, c’è una multinazionale delle costruzioni navali come Fincantieri e c’è pure uno dei maggiori produttori mondiali di elicotteri come AgustaWestland. Senza dimenticare, poi, un gruppo petrolifero del calibro di Eni, che fattura globalmente più di 100 miliardi euro o una grande azienda energetica come Enel, che ha circa 77 miliardi di ricavi. In Italia hanno inoltre la propria sede il quinto produttore di pneumatici al mondo, cioè Pirelli, il leader globale dell’occhialeria Luxottica e un gruppo della moda e del lusso come Armani, che ha un giro d’affari di circa 2 miliardi di euro e che, a differenza di altri marchi del fashion finiti in mani straniere, rimane saldamente sotto il controllo del suo fondatore. Nel settore alimentare, dopo l’arrembaggio di molte multinazionali estere iniziato negli anni ‘80, non vanno invece dimenticati gruppi di dimensioni medio-grandi come Barilla e Ferrero che, a differenza della concorrente Parmalat, restano sotto l’ala protettrice delle famiglie che li hanno fondati. La Ferrero, che detiene da sola il 7,7% del mercato mondiale del cioccolato, è stata definita di recente dal Wall Street Journal come una “anomalia internazionale”, una grande corporation che si tiene lontana dalla Borsa e che, dal 2006 in poi, è cresciuta del 45%, nonostante la crisi. «Siamo nati come azienda familiare e abbiamo intenzione di restarlo», ha detto di recente Giovanni Ferrero, vicepresidente e Ceo del gruppo, che ha una vasta presenza internazionale ma mantiene ben salde le proprie radici ad Alba (Cn) e possiede diversi insediamenti produttivi sia nel Nord che nel Sud Italia.

“SIAMO ANCORA UNA POTENZA INDUSTRIALE”

MEGA COMPANY ITALIANE NON QUOTATE IN BORSA

IL QUARTO CAPITALISMOIl radicamento sul territorio e l’attaccamento ai valori della famiglia fondatrice sono state ciò che ha permesso a Ferrero di diventare grande. Sono i tratti distintivi del cosiddetto quarto capitalismo: un modo di produrre a cura di imprenditori così legati alla propria azienda da evitare di contaminarla con le logiche dell’alta finanza. Come ha più volte sottolineato Fulvio Coltorti, ex responsabile dell’ufficio studi di Mediobanca, il quarto capitalismo è l’unica speranza di ripresa per il sistema Italia, dove le multinazionali più grandi sono invece affette da nanismo. Del resto, come sostiene da tempo l’economista Marco Fortis della Fondazione Edison, non è detto che il nostro Paese abbia per forza bisogno di grandi gruppi che creano occupazione soprattutto fuori dal Paese di origine e che portano, molto spesso, i loro profitti in qualche paradiso fiscale. Piuttosto, c’è bisogno di un consolidamento patrimoniale e dimensionale delle aziende italiane medio-grandi, che sanno anche competere alla grande nel contesto globale, spesso in settori di nicchia. A detta di Fortis, dunque, non si capisce perché il sistema Italia dovrebbe convertirsi per forza a una sorta di gigantismo industriale. Va bene la grande impresa, dunque, ma solo quando è funzionale allo sviluppo del Paese.

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MULTINAZIONALI TRICOLORI Il varo della nave Divina, una delle 12 che compongono la flotta di Msc Crociere, presso i cantieri Stx France a Saint Nazaire nell’Ovest del Paese